Opinioni

«Il coraggio che serve ora all'Italia». E la credibilità che serve ai politici

Marco Tarquinio giovedì 23 febbraio 2017

Caro direttore,
l’Italia è ricca di un enorme (e anche sterile) risparmio privato, ed è impoverita da un immenso debito pubblico. Un paradossale fenomeno distruttivo che oggi costituisce il nostro cul de sac. Il debito pari al 133% del Pil prosciuga l’avanzo primario, che pure da anni conseguiamo, a fronte di una ricchezza privata generale che è la più alta dell’Europa. In particolare è elevata la proprietà immobiliare e mediamente basso il livello di indebitamento sia delle aziende sia delle persone. In tutto questo stiamo meglio di Germania, Francia e Gran Bretagna. Questa incongruenza svela anche i vizi della storia italiana ove ci si è arricchiti anche largamente (a causa, pure, dello scarso senso civico, dell’evasione e della corruzione) a scapito dello Stato con la complicità di classi politiche troppo compiacenti. La situazione è aggravata dal fallimento delle politiche neoliberiste che, mollando le briglie a mercati globali spregiudicati, hanno lasciato che i cospicui frutti finissero nelle mani di pochi. I dati delle disuguaglianze a fronte della concentrazione di ricchezza nei portafogli di ristretti beneficiari gridano vendetta al cospetto di Dio. Tutti gli schemi economici di equità distributiva e fiscale nonché di responsabilità sociale d’impresa sono stati stravolti dalla turbo finanza globale sganciatasi dalle democrazie, che ora in Italia e altrove pagano lo scotto delle rabbie popolari. Inoltre, la mancanza di un’anima politica solidale europea produce solo una austera gestione contabile sempre più insostenibile; utile nell’immediato per rimediare a gestioni scialacquone, ma che nel lungo termine non offre risposte a problemi strutturali che comportano elasticità storica pur dentro a programmi di risanamento precisi. E mentre siamo seduti stremati sui nostri tesori, i giovani non trovano lavoro a causa di mercati asfittici e soprattutto di uno Stato che non ha mezzi per rilanciare forti investimenti pubblici che sarebbero il volano per una iniezione di vitalità del Paese. E quindi come allentare il soffocante cappio? Se vi fosse la tempra civile, l’onestà e il coraggio necessari, si dovrebbe dire finalmente che la via rapida d’uscita è quella di proporre un “patto” agli italiani per restituire ai nostri giovani la possibilità di liberare lo sviluppo del Paese. Ovvero contribuire, in maniera differenziata ovviamente, alla drastica riduzione del debito per liberare risorse da destinare a investimenti e quindi occupazione. Certo non è facile per i politici assumere queste iniziative, perché occorre il coraggio di affrontare lo choc dell’opinione pubblica. Ma se non si ha questo ardire, le vie saranno: o prolungare l’agonia o affidarsi a mendaci maghi di turno che porterebbero a concludere con il classico xe pèso el tacon del buso, è peggio la toppa del buco...

Alberto Mattioli

In questa tua riflessione, caro Alberto, tocchi punti dolenti e veri, sottolineando il contrasto stridente tra l’impoverimento generato in Italia dalla montagna di un debito pubblico che ha preso a crescere in modo impressionante e sempre più schiacciante dagli anni 80 del secolo scorso e la vasta ricchezza privata che caratterizza la nostra società pure segnata da rinnovate e anche clamorose disuguaglianze. Vero, verissimo. Purché si sappia ben distinguere tra ricchezza teorica (esempio: la casa nel “paese delle radici” di chi si è trasferito, magari in affitto, in una grande città) e reale. Dico questo perché mi pare proprio che tu evochi, chiamandolo «patto», uno strumento che potrebbe contribuire a una vera e propria “cura da cavallo” del debito pubblico italiano: una tassa patrimoniale, ovviamente straordinaria e “di scopo”. Un po’ come la «eurotassa» che Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi chiesero agli italiani per far sì che il nostro Paese aderisse sin dal principio alla moneta unica europea (e che, poi, venne restituita in parte come «dividendo dell’euro»). Stavolta si tratterebbe di una speciale «italtassa». Il terreno è minato, ma ci entro lo stesso. Non so davvero se una «patrimoniale» potrebbe essere la cura giusta e sul punto posso avanzare, visto che non sono un esperto, solo la mia competenza di cittadino innamorato del proprio Paese e dell’idea di un’Italia che dà un efficace contributo all’Europa. Personalmente, da padre di famiglia, da contribuente e da italiano, sarei più che disposto a fare un “sacrificio” aggiuntivo, anche importante, per dare una prospettiva più salda e giusta, e dunque meno condizionata e precaria, a tutti noi e soprattutto ai miei concittadini più giovani. E sono convinto che tanti, ma proprio tanti, italiani la pensino come me. Condizione fondamentale per un simile sforzo, però, è che un’intera classe dirigente politica sia disposta a essere esemplare e a “metterci la faccia”. Sino a fare il possibile e l’impossibile per trasformare un’operazione complessa e divisiva come poche altre in un’impresa comune, indicandone obiettivi precisi e verificabili, modi e tempi, e dimostrando una contemporanea e ferrea volontà di gestire con saggezza (lontano e fuori dalle retoriche sulla spending review di questi anni) le risorse ordinarie dello Stato e un’inflessibilità vasta, serissima e utile – sul modello di quella garantita grazie all’Anac guidata da Raffaele Cantone – contro la corruzione. Servirebbe coraggio, come tu scrivi, ma assieme – anzi ancor prima – una pubblica assunzione di impegni tanto chiari quanto credibili. Proprio la credibilità, politica e personale, è la conditio sine qua non di chi si dovesse assumere il compito di chiedere agli italiani di pagare – ognuno in base alla propria effettiva condizione e capacità – una sorta di “biglietto per il futuro” dei nostri figli. È qui la base, decisiva tanto quanto la misura di un simile prelievo, del «patto» di cui tu scrivi e che io, solo così, sarei disposto ad accettare.