Opinioni

Il cuore della sfida (non solo) in Sicilia. Contro la mafiosità del neo-feudalesimo

Giuseppe Savagnone martedì 21 novembre 2017

La morte di Salvatore Riina detto Totò ha dato la stura a una serie di ipotesi sui futuri sviluppi di Cosa Nostra, di cui, in realtà, da tempo gli osservatori segnalano la crisi. Il fenomeno dei cosiddetti 'pentiti', i colpi inferti alla gerarchia mafiosa con l’arresto di boss come lo stesso Riina e Bernardo Provenzano, il progressivo isolamento di quelli ancora in libertà, come Messina Denaro, hanno fortemente intaccato, anche se non annullato, il prestigio e la capacità operativa della struttura criminale mafiosa. Da questo punto di vista, è comprensibile che si veda nella morte del 'capo dei capi' il simbolo della fine di un’era che aveva visto la mafia siciliana ergersi ad antagonista dello Stato e perfino infiltrarsi nelle sue istituzioni, inquinandone la credibilità. Ora più che mai, però, è importante rendersi conto che la mafia non coincide con la sua espressione 'militare' – quella della lupara e, in tempi più recenti, degli attentati al tritolo – , ma è innanzi tutto una cultura, uno stile di vita, un costume, la cui natura più profonda non consiste nell’uso della violenza fisica, ma nel disprezzo del bene comune e nella strumentalizzazione dello Stato e degli altri enti, come la Regione siciliana, che istituzionalmente hanno il compito di perseguirlo.

Perciò la mafia – nel senso che si è appena detto – continua a tenere in ostaggio la Sicilia anche nel tempo del declino della criminalità organizzata di Cosa Nostra. In realtà il suo potere è tale che non ha neppure bisogno di violare le leggi, perché è in grado di condizionare chi le fa. Quando qualche giornalista chiese a Totò Cuffaro come mai avesse assunto, per chiamata diretta, il ventitreesimo addetto stampa della presidenza della Regione (ogni assessore aveva, poi, i suoi), rispose candidamente che questa era la legge e che lui si limitava a osservarla. È per legge che, ancora oggi, la Sicilia ha circa 25mila guardie forestali, a fronte delle 400 del Piemonte, delle 500 della Lombardia e delle 4.200 di tutto il Canada (che poi si tratti, per la stragrande maggioranza, di precari, è perfettamente funzionale ai meccanismi clientelari pre-elettorali). Come era per legge che la Provincia di Palermo (fino al 2011, quando scoppiò il caso) pagava un congruo straordinario ad alcuni suoi dipendenti per spalare neve in tutti i mesi dell’anno, anche a luglio e agosto. In un bel documento della Cei, pubblicato 1991 e intitolato Educare alla legalità, si identificava quest’ultima non solo con l’osservanza delle leggi, ma con la conformità di queste ultime alle reali esigenze del bene comune.

Riferendosi all’Italia intera, i vescovi denunziavano il pericolo di un «neofeudalesimo, in cui corporazioni e lobby manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio» (n.7). Questo pericolo in Sicilia è reso particolarmente drammatico dal fatto che il regime dell’Autonomia regionale favorisce quel neo-feudalesimo e consente – come nel caso dei forestali – operazioni spregiudicate a esso funzionali. Non è del resto un caso che l’Assemblea regionale siciliana, appena un anno fa – a metà novembre del 2016 –, abbia definitivamente bloccato con una pioggia di emendamenti presentati da un fronte trasversale, l’approvazione di un Codice etico che mirava a moralizzare le prassi della politica e dell’amministrazione pubblica, sanzionandone tanti comportamenti non strettamente illegali, ma sicuramente scorretti. Oggi, all’indomani delle recenti elezioni che hanno rinnovato il massimo organo legislativo siciliano (sia pure col 53% di astensionismo…), è il momento di ricordare che la mafia non è solo quella dei delinquenti come Riina, ma si annida nei comportamenti di una classe dirigente che ha delle responsabilità gravissime nel crescente degrado della Sicilia e, soprattutto, di sostenere con tutte le forze coloro che, in questo contesto, si sforzano di difendere i diritti della legalità (quella vera). In questa prospettiva, l’accento va sicuramente posto sulla necessità di un’educazione alla cittadinanza che è il solo efficace antidoto contro tutte le forme della mafia, anche di quella che cammina in giacca e cravatta. Un popolo ha i governanti che si merita. Se i siciliani liberi e onesti vogliono uscire da questa difficile situazione, devono impegnarsi a diffondere, soprattutto nelle nuove generazioni, una visione della convivenza che, invece di ridurla alla lotta per la difesa dei privati interessi, scopra il valore del bene comune. Che poi è il vero interesse dei siciliani e di tutti gli italiani.