Opinioni

Clima. Il bello dei «nativi digitali» che vogliono salvare il pianeta

Adriano Fabris sabato 20 aprile 2019

Sono sempre di più in Italia, in Europa e nel mondo i ragazzi che manifestano per ricordare ai governanti dei rispettivi Paesi, ma anche a tutti noi, che non c’è più molto tempo se vogliamo intervenire davvero sui cambiamenti climatici, invertendone la tendenza. Bisogna fare qualcosa – dicono – e velocemente. Bisogna agire subito, se si vuol lasciare alle future generazioni un ambiente che possa essere abitato allo stesso modo in cui lo stiamo abitando noi. È anche questa una questione di giustizia: di giustizia intergenerazionale. Questi ragazzi sono parte in causa e perciò sono legittimati a intervenire. Ma non possono farsi carico d’interventi efficaci perché non sono loro a poter prendere le decisioni di fondo. Davanti a tali questioni si sentono spesso impotenti. Per questo si fanno sentire. Per questo si rivolgono a noi adulti.

Ma chi sono i ragazzi che manifestano il venerdì? Dobbiamo stare attenti a non riportare le loro azioni agli schemi e alle categorie che siamo abituati ad applicare. Sappiamo bene che è stata Greta Thunberg a ispirare il Global Strike for Future, a rilanciare il tema dell’emergenza ambientale con la sua determinazione e cocciutaggine. Ma a ben vedere non è necessario individuare a tutti i costi un leader, un personaggio da seguire – o da insultare – per far contenti i media, per metterlo sugli altari e poi, subito dopo, trascinarlo nella polvere. È inutile, ad esempio, cercare la "Greta milanese". I ragazzi non hanno un leader perché non ne hanno bisogno. È la rete a fare da collegamento, non una persona. È un tema condiviso ciò che spinge a partecipare, non una parola d’ordine ripetuta e accolta passivamente. Basta guardare i cartelli portati alle manifestazioni, ironici e pungenti. C’è infatti un altro senso di democrazia che qui s’annuncia: una democrazia che diffida di ogni organizzazione gerarchica, di ogni pretesa d’autorità. Il leaderismo e il populismo, ormai, riguardano solo i vecchi.

Bisogna poi evitare di considerare questi ragazzi come un tutto omogeneo. Non lo sono. Nelle strade si trovano ragazze e ragazzi, con le loro sensibilità diverse e le loro differenti fragilità. Adolescenti e persone un poco più grandi. Vi è chi – ed è la maggioranza – manifesta pacificamente. Vi è qualcun altro che vuole solo saltare la scuola, o fare confusione. Non c’è da stupirsi: accade in tutte le buone famiglie. In realtà, però, questi ragazzi noi non li conosciamo per davvero. Sono, o potrebbero essere, i nostri figli, i nostri nipoti, ma non li conosciamo. Non c’è da allarmarsi, però. È sempre accaduto così. È accaduto anche quando noi avevamo la loro età. Facevamo gruppo con i nostri coetanei, eravamo impermeabili agli occhi dei nostri genitori. Questo era ciò che preoccupava questi ultimi allora; questo è ciò che allarma noi oggi.

Ma in realtà, per capire chi sono i ragazzi scesi in piazza, alcuni indizi già li abbiamo. Sono una generazione abituata a interagire con il mondo e a relazionarsi fra loro e con noi soprattutto attraverso alcuni dispositivi di comunicazione. Non si tratta di "nativi" o di "nati" digitali, comunque vogliamo tradurre la fortunata espressione coniata da Mark Prensky. Essa infatti sembra far riferimento a un’ulteriore attitudine che i nostri ragazzi hanno sviluppato rispetto a noi, esseri vissuti in un’epoca soprattutto televisiva. Questa capacità, tuttavia, è spesso sopravvalutata. Fra i "nativi digitali" vi è certamente chi vive con lo smartphone sempre acceso, e da esso dipende, ma poi non sa gestire un programma Word o non conosce come funziona il sistema tutor nelle autostrade.

In parte, però, chi sono questi ragazzi già lo sappiamo. Siamo noi, infatti, ad averli educati, e non sempre nella maniera più saggia. Li abbiamo protetti, coccolati. Ci siamo posti al loro servizio permanentemente, dando l’idea che il mondo fosse fatto solo per loro. Abbiamo scelto di fare pochi figli per poterli seguire in tutto e per tutto. Li abbiamo posti al centro dell’attenzione. E, così facendo, ci siamo messi nelle condizioni di non poter insegnare loro nulla, o nulla che fosse per loro accettabile. Abbiamo confuso l’autorità cieca, a cui bisogna soltanto ubbidire e che giustamente andava superata, con quell’autorevolezza che, sola, permette di trasmettere valori credibili: e le abbiamo abolite entrambe.

In una parola, i nostri ragazzi li abbiamo in molti casi lasciati a loro stessi. E mentre per noi la baby sitter è stata la televisione, per loro sono stati l’iPad e lo smartphone. Che, per di più, non abbiamo insegnato loro a usare correttamente, così come a noi nessuno ha insegnato a decodificare le immagini trasmesse sullo schermo. Così altri valori sono stati recepiti: quelli veicolati dalle piattaforme. Le piattaforme, lo dice la parola stessa, tutto appiattiscono, tutto mettono sullo stesso piano, tutto rendono omologato. Ci si può rivolgere con il "tu" a tutti, si può manifestare sempre e comunque la propria opinione, non importa che competenza uno abbia su un determinato argomento, semplicemente perché si possiede l’accesso a una rete sociale.

Nel contempo, poi, un’altra etica si è ormai imposta nella mentalità comune: quella per cui qualche cosa vale di più quanto più è condivisa. E poi, in questo contesto, nulla in realtà è propriamente mio. Ogni cosa che è accessibile in rete possiamo farla nostra, possiamo scaricarla, possiamo copiarla. Ciò non fa problema, nella misura in cui noi stessi, senza problemi e senza paure, condividiamo le nostre immagini, i nostri dati, la nostra vita anche con chi se ne vuole solamente appropriare. Nella rete, infatti, tutto è pubblico.

Insieme, però, l’uso delle tecnologie della comunicazione ha creato nuove forme di socialità, nuovi legami. E ciò è davvero la novità del nostro tempo. Non solo ha potenziato i legami già presenti, non solo, in molti casi, ha sostituito vecchi modelli di relazione con nuovi collegamenti. Soprattutto ha fatto sì che si potessero vivere tutti insieme nuove emozioni e nuovi problemi. I nostri ragazzi lo stanno appunto facendo. Rendendosi conto, anche se noi non glielo diciamo, che questo nuovo mondo virtuale ha delle conseguenze sulla realtà di tutti i giorni, e che la realtà è qualcosa di duro, qualcosa che ha le sue leggi e con cui prima o poi bisogna fare i conti. Come accade nel caso dei mutamenti climatici.

È una situazione fatta di luci e di ombre, certo, come tutte le situazioni che caratterizzano l’essere umano. Per questo essa ci pone di fronte a scelte ben precise. I nostri ragazzi se ne sono accorti. E cominciano ad applicare ciò che caratterizza nel profondo la loro vita – l’uso cioè di strumenti che li immettono in sempre nuovi ambienti digitali – al futuro che li attende. Cominciano cioè a rendersi conto che un futuro lo devono avere. Che non basta il tempo reale, rassicurante, che viene offerto dalle tecnologie. Grazie a esse, infatti, è pure possibile fissare un momento speciale in una foto che posso postare su Instagram e condividere con i miei amici. Ma per me e per i miei amici, se vogliamo davvero ancora avere la possibilità di ricordare quest’immagine, un futuro alla fine ci deve essere.

Ce lo ricorda anche Google. Ogni tanto, infatti, sul nostro smartphone ci viene riproposta oggi la foto scattata nello stesso giorno di un anno o due fa. Ma – riflettiamoci – affinché la foto scattata oggi possa essere da noi goduta tra un anno o due, dovremo quanto meno trovarci nelle stesse condizioni in cui siamo oggi. Questo i nostri ragazzi lo hanno capito meglio di noi, e certamente meglio dei nostri governanti. Se ciò non avverrà la tecnologia, invece di essere strumento d’intrattenimento e di condivisione, finirà per trasformarsi solo in un’occasione di rimpianto.

Adriano Fabris è docente di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa