Opinioni

I seguaci di Gesù nel mirino. La libertà religiosa è l'esame di civiltà

Gerolamo Fazzini mercoledì 5 novembre 2014
Il Rapporto annuale sulla libertà religiosa, curato da Aiuto alla Chiesa che soffre, è un testo che politici e diplomatici farebbero bene a studiare. Perché documenta il grado di civiltà che l’umanità nel suo complesso ha raggiunto in relazione a un diritto fondamentale e inalienabile della persona: il diritto a credere e ad esprimere, liberamente e pubblicamente, la propria fede. Nell’edizione di quest’anno i motivi di allarme non mancano, per i cristiani e non solo. Nel periodo preso in esame dal Rapporto quasi il 60% dei Paesi analizzati assiste a un peggioramento della libertà religiosa. Cambiamenti sono stati registrati in ben 61 Stati, ma solo nel 10% dei casi si può parlare di progressi. Il che dice tutta la gravità della situazione: ed è qui che l’intera comunità internazionale – dalle istituzioni culturali, ai gruppi sociali, al mondo politico ed economico, passando ovviamente per i leader religiosi – viene chiamata in causa con forza. «Incomprensibile e preoccupante»: così Papa Francesco definiva, nel giugno scorso, il fatto che «permangano discriminazioni e restrizioni di diritti per il solo fatto di appartenere e professare pubblicamente una determinata fede». Aggiungendo che è «motivo di grande dolore constatare che i cristiani nel mondo subiscono il maggior numero di tali discriminazioni. La persecuzione contro i cristiani oggi è addirittura più forte che nei primi secoli della Chiesa». Il rapporto conferma che i cristiani sono il gruppo religioso più esposto a discriminazioni, abusi e violenze. Paradossalmente quello che, a prima vista, sembra un elemento di debolezza rappresenta, invece, la sua più vistosa conferma. I seguaci di Gesù, infatti, sono presenti in tutto il mondo sebbene, non di rado, essi rappresentino un "piccolo gregge" vulnerabile quant’altri mai. Un altro dato offerto dal rapporto conferma quanto emerge dalle cronache (pensiamo alla vicenda della sudanese Meriam o alle liceali rapite in Nigeria): in molti Paesi dove il grado di violazione della libertà religiosa è elevato, la persecuzione è legata all’estremismo musulmano. La tendenza è in atto da anni, ma va peggiorando. Accanto al fondamentalismo di marca islamista – non dimentichiamolo – persiste quello induista in India e quello di segno buddista: ne sanno qualcosa cristiani e musulmani in Sri Lanka, teatro di un atteso viaggio a inizio 2015 da parte di Papa Francesco. Ebbene, la risposta a tale drammatica situazione non passa per la via della violenza e delle armi: l’ultima cosa che serve per "proteggere" i cristiani (e in generale ogni minoranza) è una guerra di religione. Piuttosto, ogni sforzo dev’essere rivolto all’educazione, al dialogo, alla difesa – ferma, ma non violenta – dei diritti, puntando alla delegittimazione dei violenti. Il primo obiettivo che va perseguito, infatti, è quello di convincere ogni leader religioso a prendere le distanze, senza se e senza ma, da chi impugna la religione per farne mero strumento di potere. La lezione di Papa Ratzinger a Ratisbona ritorna qui di attualità sconvolgente. È un compito difficile, ma non impossibile. Lo stesso rapporto ammette che, pure in molti Paesi incriminati, «non mancano tuttavia esempi di dialogo e cooperazione religiosa»: a dire che i fanatici non hanno l’ultima parola e che donne e uomini di buona volontà sono presenti tra i seguaci delle diverse tradizioni religiose. Dal dossier affiorano anche casi in controtendenza, Paesi che fanno segnare dei miglioramenti, da Cuba al Golfo Persico (Emirati Arabi Uniti e Qatar). Le buone notizie, tuttavia, non debbono illuderci: su questo fronte serve una mobilitazione delle coscienze costante. Oggi è (relativamente) facile indignarsi davanti alla terribile notizia che arriva dal Pakistan e parla di una coppia cristiana - 26 anni lui, 24 lei - bruciata viva in una fornace con l’accusa di blasfemia. Ma domani, passata l’emozione e lo sdegno, occorrerà continuare, con rinnovato slancio, la "buona battaglia".