Opinioni

Analisi. In Cina ministri spariti e silurati, il volto imperiale del potere di Xi

Luca Miele giovedì 26 ottobre 2023

Xi Jinping, settant’anni, è presidente del Partito comunista cinese dal 2012 e capo dello Stato dal 2013

Gli scricchiolii sono sempre più numerosi. E sinistri. Gli ultimi riguardano alcuni pezzi da novanta della compagine governativa cinese. Prima la misteriosa sparizione di Qin Gang, il ministro degli Esteri evaporato dalla scena pubblica per oltre un mese e “liquidato” con uno stringatissimo comunicato la scorsa estate. Poi il caso – ancora più delicato - del ministro della Difesa, il generale Li Shangfu, ignorato dai media statali dallo scorso 29 agosto, quando fece la sua (ultima) apparizione al Forum per la pace e la sicurezza Cina-Africa e rimosso ufficialmente dall’incarico il 24 ottobre. Il generale è finito schiacciato, probabilmente, sotto l’arma tipica delle lotte intestine cinesi: l’inchiesta per corruzione. Defenestrati anche il titolare delle Finanze (Liu Kun) e quello della Scienza e della Tecnologia (Wang Zhigang).

Ma non basta: sono stati, recentemente, rimpiazzati anche due generali alla guida della Forza missilistica dell’Esercito popolare di liberazione, tanto che il sito Nikkei Asia si è spinto a parlare di “una grande purga” in atto nei vertici militari del gigante asiatico. La rimozione di due ministri di alto profilo, così come la scure calata sulle Forze armate, solleva pesanti interrogativi sulla governance del presidente cinese Xi Jinping che ha reso, come ha scritto la Cnn, «il sistema politico cinese sempre più opaco, concentrando tutto il potere nelle sue mani e imponendo una rigida disciplina di partito».

Che cosa sta accadendo nelle stanze del potere cinese, le più indecifrabili e blindate della scena politica contemporanea? La leadership di Xi sta mostrando segni di usura che rischiano di offuscare la figura del “nuovo timoniere”? Siamo in presenza di una sorta di legge del contrappasso alla cinese che colpisce il presidente e la sua bulimia di potere? Una cosa è certa: in dieci anni Xi Jinping ha accumulato una quantità impressionante di cariche – da segretario del Partito Comunista a capo dello Stato, da comandante in capo dell’esercito a “core” («centro, nucleo, sole») del Partito. Il presidente ha “marcato” – iscrivendovi la sua dottrina – lo Statuto del Partito comunista cinese (Pcc), come nessun altro leader aveva fatto prima: unica eccezione, guarda caso, Mao.

Nel 2018 è arrivata la “picconatura” finale del compagno Xi: l’eliminazione del limite dei due mandati al potere presidenziale e la costituzionalizzazione del suo pensiero, passaggio che gli ha aperto la strada alla rielezione, avvenuta puntualmente a marzo. Una doppia mossa che, di fatto, ha smontato l’architettura istituzionale cinese. Mandando in frantumi quel sistema di potere “collegiale” e a “termine” che, faticosamente, il Dragone aveva messo in piedi per evitare che si ripetessero gli eccessi legati al culto della personalità su cui Mao aveva edificato il suo potere. Eliminando ogni limite temporale e ogni argine, Xi ha impresso al suo potere una torsione imperiale

«La questione è preoccupante – dice ad “Avvenire” Nunziante Mastrolia, fondatore del sito di analisi di politica internazionale “Stroncature” e autore di Chi comanda a Pechino? - non solo perché non vi sono, come in passato, meccanismi istituzionali in grado di correggere gli errori ma anche perché non vi sono meccanismi per garantire una pacifica trasmissione del potere da una generazione all’altra, dopo che Xi Jinping ha smantellato tutta quella serie di norme e procedure che Deng Xiaoping aveva messo in piedi (limite dei due mandati, gestione collegiale del potere, cooptazione della leadership successiva) per evitare che la lotta politica di tramutasse ogni volta in guerra civile».

Il primo scossone all’immagine granitica di Xi è arrivato dalla vicenda Covid, che proprio dalla Cina si è irradiato contagiando l’intero globo, dopo una serie di maldestri tentativi di metter a tacere “lo scandalo”. Pechino ha prima perseguito il modello del contagio zero, dando vita a esperimenti sociali dalle oscure tinte totalitarie. Poi ha liquidato la politica delle restrizioni pandemiche con una rapidità, da molti, giudicata affrettata. Il tutto nella totale opacità sulla reale diffusione della malattia. Con quali esiti?

«L’impatto economico e sociale delle politiche Covid attuate da Xi Jinping – spiega ad “Avvenire” Lawrence C. Reardon, sinologo dell’Università del New Hampshire - ha profondamente scosso l’edificio della legittimità del Partito comunista cinese. Negli ultimi anni, la legittimità della gigantesca macchina del Partito è dipesa dalla sua capacità di garantire tassi di crescita elevati e, quindi, un miglioramento del tenore di vita generalizzato».

La gestione politica del Covid ha mandato in frantumi questo patto, alterando lo scambio tra ricchezza diffusa e stabilità politica sui cui esso si basava. «I problemi economici della Cina – continua Reardon - sono antecedenti alla chiusura dell’economia dovuta al Covid. Xi Jinping non è riuscito ad attuare importanti riforme nella strategia di sviluppo cinese, basata sugli investimenti di capitale e sulla riduzione dell’enfasi sui consumi interni. A meno che il presidente non modifichi drasticamente le sue strategie, fino ad oggi finalizzate a premiare le imprese statali e gli investimenti infrastrutturali, l’economia cinese continuerà a declinare e il gigante asiatico entrerà in un “decennio perduto” di stagnazione in stile giapponese. Ma per ora la risposta principale del partito comunista è stata il rafforzamento sullo Stato e un sempre più opprimente controllo sulla società civile. Si farà avanti una nuova generazione di leader politici, capaci di sfidare lo status quo? La domanda è se qualche leader cinese si separerà mai da Xi Jinping, poiché fino ad ora il presidente è stato abilissimo ad accusare i suoi nemici di corruzione e a farli “scomparire” dalla scena politica».

Dopo i “fasti” e la crescita a due zeri, Pechino insomma arranca. Alcuni dati certificano lo stato di salute – in affanno - dell’economia cinese. Secondo il professore dell'Università di Pechino Zhang Dandan il tasso di disoccupazione, tra i giovani dai 16 ai 24 anni, potrebbe avvicinarsi al 50%, più del doppio della cifra ufficiale. In Cina ci sono tra i 23 ei 26 milioni di appartamenti invenduti: un vulnus in un settore, come quello immobiliare, che da solo vale il 30 per cento del Pil. Dieci anni fa, il debito totale del Paese era pari al doppio dell’economia del Paese; ora è tre volte più grande. Il reddito pro capite di un cittadino cinese è di 12.700 dollari, un sesto di quello degli Stati Uniti.

«Il decantato modello cinese – il mix di liberalizzazione e controllo statale che ha generato la crescita ipersonica del Paese – è entrato in agonia», ha sentenziato la rivista Usa “The Atlantic”. E per il “New York Times”, «la Cina non ha più la demografia per sostenere una crescita torrenziale: la sua popolazione in età lavorativa ha raggiunto il suo massimo intorno al 2015 e da allora è in calo». «Per i Paesi in via di sviluppo – conclude Mastrolia - alla modernizzazione economia e tecnologica deve seguire, come un’ombra, la modernizzazione politica ed istituzionale, altrimenti la crescita economica si blocca. La Cina oggi è debole perché sono fragili le sue istituzioni e per questo, per rimanere al potere, il partito sta stringendo la sua presa sul Paese che, sotto questa cappa di arbitrio e improvvisazione, si sta spegnendo e chiudendo al mondo. Come è già accaduto altre volte, nella sua storia».