Opinioni

Coronavirus. I grazie da dire e da ripetere. Prima linea e preziose retrovie del lavoro

Francesco Riccardi domenica 22 marzo 2020

In prima linea, dove infuria la battaglia al virus, sono schierati medici e infermieri. Nei loro confronti tutti giustamente provano e dimostrano ammirazione, affetto e profonda riconoscenza. Curare le malattie e salvare vite, anche a costo di perdere la propria, di sacrificare se stessi e i familiari, è l’esempio lampante di che cosa significhi lavorare per una "missione" e non semplicemente svolgere una professione. È nella prima retrovia di questa guerra, però, appena dietro le trincee degli ospedali, che sta avvenendo un cambiamento netto nella percezione dell’utilità sociale di alcuni mestieri, che si costruiscono nuovi paradigmi. E che si può arrivare a recuperare il valore autentico del lavoro nella sua dimensione più semplice e vera. Così capita ad esempio che, dopo il personale sanitario, assurga a nuova figura eroica la cassiera o il cassiere del supermercato. Fino a un paio di mesi fa il suo ruolo era tanto svalutato da essere considerato obsoleto, facilmente eliminabile grazie all’automazione.

Per noi passava i prodotti sul lettore ottico, dava il resto e tutt’al più aiutava gli anziani a individuare le monetine giuste. Fine. Oggi invece guardiamo al personale del commercio – la categoria maggiormente esposta al rischio di contagio dopo medici e soccorritori – come a dei salvatori. Almeno di noi "sani". Sono lì, nonostante i timori, a volte senza neppure adeguate dotazioni di protezione, per permetterci di sopravvivere acquistando ciò che ci è necessario. E dietro ognuna di queste cassiere e di questi cassieri c’è tutta una filiera di persone che non vediamo, ma la cui utilità per noi è tanto importante quanto non percepita. L’allevatore che continua a mungere, l’operaio che trasforma le materie prime, il trasportatore che distribuisce i prodotti. Persone che non lavorano in remoto, ma più spesso in gruppo, che sfuggono alla retorica (e, oggi, alla precauzione) dell’essere "smart", eppure sono essenziali. Come fondamentali si rivelano altri mestieri che normalmente non godono di grande considerazione sociale. Pensiamo al settore delle pulizie: dallo spazzino che raccoglie i rifiuti a coloro che in ospedali, uffici e condomini lavano e sanificano gli ambienti. Se non ci contageremo, toccando una maniglia, lo dovremo anche al loro impegno, svolto nonostante i maggiori rischi.

E come dimenticare le centinaia di migliaia di badanti, spesso straniere sottopagate, che anche in questo difficilissimo momento per tutti continuano a prendersi cura di tanti nostri anziani? Il fatto è che il lavoro, nella sua accezione più autentica, non è mai la semplice realizzazione di sé stessi, dei propri progetti, ma è anzitutto un entrare in stretta relazione con gli altri. È il modo con cui l’uomo partecipa alla trasformazione del mondo assieme agli altri uomini, collaborando, cooperando, mettendo in gioco se stesso. E così - in maniera più o meno diretta, più o meno percepibile - si "prende cura" dell’altro. In una relazione che è molto più ampia e profonda del semplice scambio di beni e servizi, con cui siamo soliti misurare e valutare le professioni. La dignità che il lavoro - ogni lavoro onesto e condotto con coscienza - conferisce all’uomo risiede proprio in questo: nel perseguire con il proprio impegno il bene comune. Che non è la somma di tanti beni particolari ma una continua costruzione tesa a creare le condizioni migliori per permettere, sia alla comunità sia ai singoli membri, di raggiungere giusto equilibrio e, per quanto è umanamente possibile, perfezione.

In questa emergenza che ci fa ancora più fratelli, non è un caso se le uniche parole che confortano e danno speranza siano proprio queste: prendersi cura, collaborare, costruire il bene comune. Se, pensando a medici e cassiere, a infermiere e a badanti sapremo farle nostre cambiando sguardo e considerazioni non avremo sprecato questo tempo.