Opinioni

Oltre alla stabilità politica, necessarie le riforme. I compiti da fare per agganciare la ripresa

Giancarlo Galli sabato 14 settembre 2013
Giorgio Squinzi, oltre che presidente di Confindustria, con le sue aziende presenti in mezzo mondo, è persona usa a misurare le dichiarazioni. Da lungo tempo, chi ha avuto modo di frequentarlo, ne coglieva le ansie sul presente e sul futuro dell’Italia. Quasi un «pessimismo della ragione» che lo ha portato poche settimane fa senza paraocchi ideologici o preconcetti, a sedersi al tavolo dei sindacati (tutti), all’insegna di un «serriamo le fila» per non farci travolgere dallo spettro della recessione. Evidentemente il leader padronale aveva se non un asso nella manica, almeno qualche carta importante. E l’ha giocata. Ben sintetizzata dal titolo di Avvenire di giovedì: «La ripresa è dietro l’angolo». Corollario, le scelte da compiere per non perdere il treno.Da qualche settimana, infatti, a cavallo dell’estate, un po’ ovunque il clima è cambiato. L’Asia, dal Giappone alla Cina, è in pieno recupero. Idem per gli Usa, dove gli indici azionari di Wall Street hanno battuto ogni record storico. Sul Vecchio Continente, a prescindere dalla Germania che fa corsa a sé, i segnali positivi si moltiplicano. Financo in Spagna, che dopo una cura da cavallo, oggi riesce a raccogliere danaro fresco sui mercati a condizioni migliori di quelli nostrani. A mettere in fila i «numeri» (forse troppi, sino a frastornare le menti) emerge che il Grande Malato del Continente siamo noi. Accreditando i futurologi confindustriali di viale dell’Astronomia, esistono tuttavia le possibilità per risalire la china. Innanzitutto bloccando la caduta del Pil (sintesi della ricchezza nazionale), che in un quinquennio ha falcidiato il potere d’acquisto; poi recuperando slancio, cosicché già a fine anno, più ancora nel 2014, si vedrà l’uscita dal nero tunnel. Fosse stato un uomo politico a profetizzare la luce dietro l’angolo, sarebbero stati consigliabili i piedi di piombo nell’avallare. In qualche misura lo ha fatto il premier Letta, peraltro indebolito dalle manovre partitocratiche che si sviluppano attorno alla sua permanenza a Palazzo Chigi, per via di quell’incognita Berlusconi ancora lungi da una soluzione nell’interesse primario del Paese. Giorgio Squinzi non è politico-politicante, bensì produttore. Crede nel fare, nel rimboccarsi le maniche, anziché nel sofisticare sui cavilli delle leggi del diritto costituzionale. Sua stella polare la ripresa, a indicargli la via maestra. Innanzitutto stabilità di governo. Solo un cieco potrebbe sottovalutare le conseguenze nel salto nel buio conseguente a una sua caduta, poco importa da chi voluta o perseguita con poca limpida coscienza. Grazie dunque, si legge controluce nelle affermazioni di Squinzi, per l’encomiabile impegno del presidente Napolitano a reggere saldamente il timone nel pieno della tempesta partitocratica.Nella sferzante e rigorosa logica di Squinzi, gli auspici alla stabilità non sono irenici. Invoca misure radicali. Ridurre il costo del lavoro, attraverso una detassazione dei salari, per fare ritrovare competitività alle imprese e dare una spinta ai consumi languenti. In contemporanea sequenza, tagliare la spesa pubblica di almeno 30 miliardi; e in successiva progressione, alleggerire di oltre 300 miliardi il debito pubblico, con la dismissione del patrimonio immobiliare. Ricetta senza sconti per nessuno quella di Giorgio Squinzi. «La pendenza è cambiata, ma bisogna consolidare il cambiamento con una scossa potente: non bastano misure con il bilancino», ha dichiarato fuori da denti. Gli applausi raccolti sono stati ampi. Resta da verificare se trattasi di vero consenso o italico gattopardismo in un Paese, specie nell’establishment politico e nella burocrazia, dove la voglia di cambiare si scontra con interessi particolaristici duri da estirpare. Comunque, il sasso nello stagno lanciato dal presidente di Confindustria è segnale di speranza e fiducia. Non intercettarlo e cavalcarlo sarebbe errore imperdonabile per l’intera classe dirigente.