Opinioni

Un anno e mezzo dopo condannati alla ripetizione?. I calcoli di bottega non pagano, i cittadini sì

Marco Bertola mercoledì 27 febbraio 2013

ABC, era i­niziata così. Era il novembre 2011, freddissi­mi venti dall’Eu­ropa (soprattut­to dalla Germa­nia) avevano fatto schizzare il termometro impazzito del fami­gerato spread a 578 punti. Gli i­taliani, disorientati, cercavano riparo, chi non stava in fabbrica o in ufficio si rifugiava nei centri commerciali, altri affollavano i ristoranti... Eppure, la crisi c’era davvero.

Iniziò così la vicenda del governo 'tecnico', il sessan­tunesimo della Repubblica, l’ul­timo in carica. L’Europa e i mer­cati finanziari si sentirono ga­rantiti dalla figura autorevole di Mario Monti, uomo non-politi­co designato premier, e gli indi­catori economici del nostro Pae­se iniziarono quasi subito a dare segni di disgelo. Si stava appic­cicati agli schermi televisivi in attesa dei primi annunci pro­grammatici e dei numeri che a poco a poco testimoniavano un lento ritorno alla normalità. Non era 'normale', invece, il quadro politico. Larghe intese, tre passi indietro per un passo avanti. I leader dei principali schieramenti per una volta non in competizione ma insieme a sostenere un governo di facce nuove, tecnici prestati alla poli­tica, ma ben presto a pieno tito­lo politici.

Non sono stati rose e fiori, quei 400 giorni. Dalla stret­ta sulle pensioni – le lacrime del ministro prima e poi quelle dei lavoratori – fino all’Imu, prima casa inclusa, bene-rifugio delle famiglie. E all’aumento dell’Iva, nostra compagna quotidiana, spesa su spesa. Salva-Italia, spending review, scudo anti­spread , recessione… Tutti un po’ più tecnici, tutti un po’ più spe­ranzosi. Ma anche tanti un po’ più poveri, un po’ più arrabbiati. I cittadini. Però le bufere passa­no, o si allontanano, mentre le riforme politiche e istituzionali – da tutti vagheggiate – rischia­no di far sentire a lungo i loro ef­fetti.

Così nei corridoi del Palaz­zo lo slancio iniziale si è via via indebolito, alla convinzione si sono sovrapposti i calcoli di bot­tega. Le province sono rimaste com’erano e così, più o meno, i costi della politica. Del Porcel­lum elettorale non si è buttato via niente. Più delusioni che riforme, della stagione di larghe intese per salvare e cambiare il Paese ai cittadini è rimasto so­prattutto l’amaro sapore dei sa­crifici, resi più insopportabili dalla sensazione che fossero tut­ti o quasi da una sola parte. Al momento del ritorno al voto, ciascuno per la sua strada. È la democrazia. La protesta si è pre­sa la sua bella rivincita, ma così anche la vecchia politica. E ab­biamo rivisto in tivù per ore protagonisti e commentatori fronteggiarsi sul filo dello 'zero virgola', 'abbiamo tenuto', 'siamo nati ieri…'.

Ma ancora una volta i mercati finanziari (domani certamente anche quelli rionali) hanno ripresenta­to il conto, lo spread in 24 ore dai 255 è andato a sfiorare i 350 punti, le Borse hanno iniziato u­na picchiata da brividi, lo scena­rio si è rifatto buio. Come in un assurdo e pericoloso gioco dell’oca stiamo ritornando al punto di partenza. Senza voler i­potecare scenari futuri, se non sarà di nuovo governo tecnico occorreranno intese larghe e magari anomale o inusuali. Tut­to come prima o quasi, insom­ma, un anno e mezzo dopo. E in tivù, concluse le interminabili dirette post-elettorali, si rivede l’intramontabile gag di Totò: «E io pago...».