Opinioni

Analisi. Se la guerra passa dalle immagini la fotografia può aprirci gli occhi

Giuseppe Matarazzo venerdì 29 dicembre 2023

I resti di una casa bruciata nel kibbutz di Be’eri, in Israele.

«Possiamo distogliere lo sguardo, voltare pagina, cambiare canale, ma questo non vanifica il valore etico delle immagini da cui siamo assaliti. Non spetta alla fotografia il compito di rimediare alla nostra ignoranza della storia e delle cause delle sofferenze che essa individua e inquadra. Tali immagini non possono che essere un invito a prestare attenzione, a riflettere. Chi ha provocato ciò che l’immagine mostra? Chi ne è responsabile? Si sarebbe potuto evitare? Abbiamo finora accettato uno stato delle cose che andrebbe messo in discussione? Sono queste le domande da porsi». La scrittrice e filosofa Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri (Nottetempo) riflette su fotografia e guerra. La fotografia non può cambiare il mondo, né appunto curarne le ferite. Ma può raccontare, aprirci gli occhi, farci vedere. Per dirla con Ferdinando Scianna, «la fotografia mostra, non dimostra». E mostra quello che avviene. Quello che gli occhi del fotografo vedono. Guardano. Catturano. Ciò che lo colpiscono.

Le foto del dolore e delle guerre corrono il rischio di farci abituare al dolore, al sangue, alla tragedia. Soprattutto oggi, con la quantità di immagini che invade i nostri smartphone e miscela tutto, come se tutto fosse uguale, un post vale l’altro, senza alcuna gerarchia di cosa sia più importante, dentro i margini dello schermo. Eppure, la “buona” fotografia si distingue e si vede ancora. E fa la differenza. E arriva dove arriva l’invisibile. La «terza guerra mondiale a pezzi» – usando l’espressione di papa Francesco, che senza mai stancarsi invoca con forza la pace nei fronti di guerra – in Europa si compie in Ucraina ed è riesplosa in Terra Santa. Dall’Ucraina a Israele e Palestina c’è un flusso di immagini che ogni giorno prova a raccontare ciò che avviene. Le foto social di chi è dentro il dramma e la storia, e fotografi che si muovono sul campo, rischiando la propria vita per documentare, testimoniare, mostrare quel «dolore degli altri».

Con una consapevolezza: che «le guerre non hanno alcun senso». Ma «le vite perdute e quelle di chi sopravvive un senso lo trovano nel nostro modo di guardare l’istante eterno di una immagine che sa fare memoria», scrive l’inviato di “Avvenire”, Nello Scavo, introducendo le potenti e drammatiche immagini di Stefano Rosselli in Ucraina (Feltrinelli). Il fotoreporter ha trascorso più di 100 giorni al fronte e più di ogni altro col suo obiettivo e il suo sguardo ha saputo fermare in uno scatto il senso perduto dell’umanità in conflitto. E ci «costringe a non dimenticare».

Un missile inesploso conficcato nel terreno presso il villaggio ucraino di Olizarivka, nel giugno 2022 - StefanoRosselli

Foto accompagnate da parole. Quelle di Massimo Recalcati che riflette sui versi e contraddittori volti della guerra: la devastazione, la sopravvivenza, la fuga, la resistenza, il trauma, la lotta. Parole che ci ricordano che gli esseri umani sono, al tempo stesso, capaci di crudeltà intollerabili e di profonda compassione, di barbarie e di tenerezza, di morte e di speranza. «Un missile inesploso è conficcato in un campo, sullo sfondo lontano un uomo, portando sulle spalle una falce, sembra recarsi al lavoro – scrive lo psicoanalista e saggista –. La presenza inquietante della guerra non annulla mai del tutto il ritmo ordinario della vita. Sopravvivere è, infatti, il mestiere più proprio dell’umano». Sopravvivere di fronte al trauma della guerra che «rende visibile la morte, la sottrae alla soffitta dove ci illudevamo di averla riposta. Con l’aggiunta che essa non si rivela come morte di uno alla volta, ma come morte collettiva, morte di moltitudini».

Un percorso che fino al 7 gennaio si fa anche mostra, a cura di Maria Vittoria Baravelli (con le musiche di Ferdinando Arnò) a Milano, al Memoriale della Shoah, quel luogo straordinario della memoria collettiva nato attorno al Binario 21 della stazione, da cui partì la deportazione degli ebrei, diventato simbolo di una cultura di pace, contro tutte le guerre. Per non dimenticare. Dall’Olocausto alla guerra in Ucraina, «perché il mondo non si abitui - scrive la curatrice Baravelli –. Le immagini di Rosselli documentano il dolore di quel mondo offeso e ci rendono testimoni oculari di eventi lontani. E non eÌ solo lo scontro di eserciti, ma anche e soprattutto l’esistenza di migliaia di civili la cui normalità viene interrotta, le abitudini sovvertite in un mondo che infine si sdoppia. La vita di chi muore, e di chi vive e spera che qualcosa all’orizzonte possa esistere. Un bacio a un corpo freddo. Un uomo che guarda fuori dalla finestra di un edificio sventrato. L’erba alta in un campetto di pallone, cresciuta perché liÌ hanno messo le mine. Ma anche un bambino che ha cercato di salvare il suo gatto e una mamma senza nome che nonostante i bombardamenti all’orizzonte pettina fiduciosamente il figlio, come se non volesse farsi prendere alla sprovvista. Ci si presenta spettinati a un incontro? No, soprattutto se l’incontro eÌ con un sogno, con una speranza o con il futuro».

Dall’Ucraina alla Terra Santa, la fotografia racconta. Ci costringe a guardare. Fa breccia nelle nostre coscienze. Come fanno le immagini di Ziv Koren, fotoreporter che ha documentato le atrocità e l’impatto sulla società israeliana dell’attacco terroristico compiuto da Hamas nei dintorni della Striscia di Gaza il 7 ottobre, nell’ultimo giorno della festività ebraica di Sukkot: Cento per cento inferno si intitola la mostra promossa dall’Ufficio culturale dell’Ambasciata di Israele in Italia, sempre a Milano, a Palazzo delle Stelline, fino a oggi, 29 dicembre.

Ziv Koren è fotografo di fama mondiale: la sua foto di un autobus israeliano esploso è stata selezionata come una delle 200 immagini più importanti degli ultimi 45 anni dal World Press Photo. Più di 1.200 vittime in un giorno e «230 cittadini rapiti e condotti nei tunnel di Hamas, tenuti in ostaggio. Anziani, bambini, ragazze e ragazzi che stavano ballando a una festa, oltre a soldati e soldatesse, sono stati portati a Gaza. Dal più piccolo di soli 9 mesi al più anziano di 90», annota all’inizio della mostra, l’artista e curatrice Keren Goldstein Yehezkeli.

«Le fotografie scattate dal fotoreporter quando è giunto nei luoghi del massacro e nei giorni successivi, raccontano principalmente la loro assenza – continua –. Un silenzio di morte si innalza dalle strade lasciate alle spalle: case bruciate e abbandonate, giocattoli caduti durante la corsa in preda al panico, impronte di mani insanguinate, segni di quella che una volta era una vita felice e che ora non lo è più. Da quell’orribile giorno circa la metà degli ostaggi è stata rilasciata in cambio della liberazione di decine di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, degli altri non si hanno notizie». Una testimonianza «di dolore, ma anche di sconcerto nel non riuscire a comprendere come esseri umani possano fare tutto questo», ha detto Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano.

“Il vento sfoglia le pagine”, scattata in Cisgiordania. - Tano D’Amico

Dall’altra parte del muro, va in scena il dramma di un popolo che allo stesso modo subisce gli effetti dell’ondata terroristica, famiglie costrette all’esodo, allo strazio, alla fame e al dolore della storia che puntualmente si ripete, minando la pace auspicata fra “popoli fratelli”, come più volte richiamato da papa Francesco. Su ciò che avviene Sotto il muro di Gerusalemme (Mimesis) è Tano D’Amico a offrire uno sguardo che viene da lontano, dalla memoria del tempo, dalla «cicatrice che unisce i secoli». Il fotografo di tante battaglie sociali e civili mostra la cultura e la vita dei palestinesi fuori dal tumulto degli eventi, dalla perenne condizione di lotta, nei pochi momenti in cui tutto sembra placarsi o sospendersi. Quando si ritorna solo uomini, «nella quotidianità, nella bellezza e nel dolore, dove riconoscere la nostra stessa esistenza». Immagini che provano a salvare la memoria di un popolo, perché «dalla storia scompare chi non ha un suo modo di vedere, un suo modo di guardare, chi non ha un suo modo, peculiare, di “fare” immagini. Chi non ha le “sue” immagini finirà col subire e condividere il modo di vedere del più forte».

Per D’Amico, «la Palestina sembra non abbia più il supporto delle immagini. Le immagini erano sempre state il rifugio dei deboli, dei perseguitati, dei vinti, dei perdenti. Le immagini sono state sempre capaci con la loro anima di mostrare la verità. La Palestina oggi non ha più immagini che la difendano perché ha vinto in ogni ambito l’immagine senza vita, senza astrattezza, senza musica, senza voce». C’è per fortuna una fotografia che resiste, che racconta e conserva la memoria. Ci fa vedere il non senso della guerra. Il dramma di popoli uniti da un unico grande dolore. Il dolore degli altri, che è anche nostro. E sul quale non possiamo chiudere gli occhi. Perché le immagini mostrano. E gridano pace.