Opinioni

Il direttore risponde. Grande Torino: quando il calcio faceva sognare

giovedì 7 maggio 2009
Caro Direttore, un grazie dal profondo del cuore per il bel paginone di Massimiliano Castellani sul «Toro» e per l’intervista a quel grande uomo ed educatore che è Sergio Vatta. D’altronde anche in altre occasioni il suo giornale si è dimostrato più sensibile e attento di tanti altri quotidiani verso una società e una squadra bersaglio di tanta sfortuna. Quando leggo qualcosa sulla squadra che da oltre 60 anni è l’unica passione della mia vita e che mi fa soffrire – ancor oggi che sono ormai un uomo maturo – come quando avevo 12 anni, io non capisco più niente. Dal calcio mi sono allontanato quando la tv commerciale ha imposto le sue leggi e perché ciò che adesso conta sono solo i soldi, il successo e l’arroganza dei più forti. I regolamenti ci sono, ma solo «ad usum delphini». Dicono che non ci sia più sudditanza psicologica verso i potenti, ma ho i miei grossi dubbi (penso al pentimento di Ceccarini a proposito di un Juve-Inter di 10 anni fa). Spero che il Torino riesca a salvarsi con le sue sole forze (quanti torti, però, anche in questo campionato!). Più dei giocatori lo meriterebbero i tanti tifosi che soffrono in silenzio e continuano a seguire una squadra che dimostra di non possedere quello spirito indomabile, retaggio di capitan Valentino, di capitan Ferrini, di Pulici, di Agroppi e di tanti altri giocatori, cresciuti sul prato del «Filadelfia» e che dimostravano con i fatti di essere veri uomini.

Francesco Calgaro Piovene Rocchette (Vi)

Replico a questa sua lettera, caro Calegaro, perché presenta una doppia attualità. Da un lato documenta quale vuoto e quanta ( giusta) nostalgia abbia lasciato in tanti cuori la scomparsa del grande Torino. La tragedia di Superga, di cui ricorre appunto il sessantesimo anniversario, ha segnato indubbiamente una sorta di linea di confine, una demarcazione fra un « prima » e un « dopo » del calcio, del costume, della società, non solo italiana. Un « prima » che era quello incarnato proprio dalla leggenda granata: una leggenda non solo di eccezionale classe calcistica ma anche e soprattutto di abnegazione, di affetto popolare, di dedizione ai valori autentici e umani dello sport. E un « dopo » che, se vogliamo, è quello del pallone moderno, divenuto invece lo specchio dei nostri vizi: un circo massmediatico planetario dove – spietatamente – conta solo il risultato, dove i club più importanti sono vere e proprie holding economiche ( che peraltro finora hanno regalato ben poche soddisfazioni aagli investitori), dove le leggi del marketing rischiano di lasciare fuori della porta ( degli spogliatoi, degli stadi, delle coscienze) quelle morali. L’augurio che le ricambio di cuore, insieme col grazie per i suoi apprezzamenti al nostro lavoro, è che il Torino – erede di quell’epopea di un’Italia povera ma bella – si salvi, restando in serie A, come meritano i suoi moltissimi tifosi. L’altra attualità del suo scritto è data poi dal menzionato personaggio di Sergio Vatta, quel « mago Vatta » che – come ben raccontato da Massimiliano Castellani – è una delle colonne portanti del nostro calcio. Un esempio di professionalità unita ai valori umani, al senso più vero e formativo del fare sport. È la presenza di uomini come lui ad autorizzare la speranza di un’inversione di tendenza, di un ambiente calcistico nel quale, sia pur sgomitando, tornino ad affermarsi le leggi della sportività, del sacrificio, del soffrire non solo per vincere ma per onorare il gioco, lo spettacolo. La sua lotta alla maleducazione sui campi, il suo impegno per rifondare squadre legate al sentimento di tanti italiani come l’Unione Sportiva Fiumana ( che giocò l’ultima partita il 14 marzo 1944), il suo senso dello sport come impegno e onestà sono mirabili e restano di riferimento per tutti coloro che auspicano per il pallone un po’ di aria pulita.