Opinioni

I Governi deboli, l'Europa dei numeri. Le anatre zoppe e il re nudo

Roberto Sommella giovedì 20 dicembre 2018

Bisogna prendere atto che spesso a comandare in Europa non sono i Governi. Almeno in politica economica. E questo rappresenta il problema principale sulla strada dell’integrazione. Ma anche delle avviate o vagheggiate secessioni. Il caos sulla Brexit, una rete inestricabile per gli inglesi da cui in qualche modo vorrebbero uscirne, i moti dei "gilet gialli" in Francia, sopiti a fatica grazie al provvidenziale via libera di Bruxelles a maggiori spese sociali, e in fondo anche il tortuoso varo della Manovra italiana 2019, "suggerita" dai tecnici della Commissione, dimostrano a vario titolo come l’Unione di oggi sia di fatto retta dai padroni dei numeri. La cessione di sovranità è stata quasi totale, proprio quando il re è rimasto nudo di fronte a una crescente insofferenza sociale perché c’è qualcuno che decide per lui. Ma il sovrano resta comunque il bersaglio principale della rabbia. L’Europa di oggi è per troppi suoi cittadini solo un’«espressione geografica», invisa a milioni di persone perché la Ue non sa parlare un linguaggio universale né promuovere meglio le libertà che certamente offre e garantisce.

A quest’Unione bastano i tecnicismi per piegare i gabinetti nazionali, ma non servono affatto per recuperare quella capacità di leadership che si era costruita negli anni dopo la guerra. Anzi, peggiorano le cose e il distacco tra popolo e istituzioni. Se alla fine anche Matteo Salvini e Luigi Di Maio, gli unici ad aver costruito un esecutivo sulla carta "sovranista", nei fatti abbastanza euro-ortodosso come gli altri, si sono dovuti arrendere, il sollievo dell’establishment non deve trarre in inganno. Disagio e insoddisfazione stanno montando. Ci sono les énragès del nuovo millennio francese, incerti tra barricate e ripiegamento; molti giovani nell’Europa dell’Est coltivano il mito dell’uomo forte e allo stesso tempo proliferano manifestazioni di protesta contro le restrizioni democratiche, come in Ungheria e Polonia; la Gran Bretagna si preoccupa più del destino delle banche che delle ragioni dei brexiters. In Germania l’economia rallenta ed è scossa da venti di destra, mentre in Belgio il Governo è in crisi e la Svezia non ha ancora un esecutivo. L’Italia, unico Paese in cui la protesta è arrivata al governo con il Movimento 5 Stelle, pare anch’essa finita nella rete in cui è caduta Londra. Manca in tutte le capitali una visione strategica, molti leader sono indeboliti, May, Macron, persino Merkel, sono «anatre zoppe». Si dubita gli uni degli altri. E a Bruxelles latita una visione comune che vada oltre le solite parole d’ordine: deficit, Pil, Fiscal Compact.

Eppure per un’Europa più giusta e più equa servirebbero riforme profonde, promosse proprio dagli esecutivi nazionali. Non ci si può fermare al Mercato unico e all’Unione monetaria che sta per compiere vent’anni. Questo formidabile scudo contro gli effetti della globalizzazione, che pur ha creato lo spazio economico più benestante del mondo, non ha prodotto in tutti i Paesi i risultati sperati, e questa incompletezza sta facendo tornare la nostalgia delle politiche nazionaliste, come se fossero una risposta possibile. Di questo ha parlato in modo lucido Mario Draghi, ricevendo la laurea honoris causa a Pisa. Il suo è sembrato un monito, speriamo non profetico, sui rischi che derivano dal populismo e dalla egemonia dei tecnici. «L’Europa unita fu parte di quell’ordine mondiale, frutto esso stesso di eccezionali circostanze, che seguiva alla Seconda guerra mondiale. Eppure oggi, per tanti, i ricordi che ispirarono queste scelte appaiono lontani e irrilevanti, la loro razionalità sembra pregiudicata dalla miseria creata dalla grande crisi finanziaria dell’ultimo decennio. Non importa – ha ricordato il presidente della Bce – che se ne stia uscendo: nel resto del mondo il fascino di ricette e regimi illiberali si diffonde: a piccoli passi rientra nella storia. È per questo che il nostro progetto europeo è oggi ancora più importante. È solo continuandone il progresso, liberando le energie individuali, ma anche privilegiando l’equità sociale, che lo salveremo, attraverso le nostre democrazie, ma nell’unità di intenti».

Il discorso del "numero uno" dell’Eurotower deve essere integrato da un’agenda delle azioni da compiere, che non può ignorare il divario crescente tra istituzioni e opinione pubblica. Un taglio agli sprechi delle stesse architetture comunitarie, che predicano continuamente la spending reviewdegli altri, è perciò necessario e ineludibile. Commissione e Parlamento (che ha tre sedi) costano rispettivamente 3,56 e 1,9 miliardi e dei 117,8 miliardi di contributi assegnati ai Paesi membri, quelli per l’amministrazione sono quasi quattro volte i fondi per cittadinanza e sicurezza. Difficile portare avanti una politica di inclusione. Così come è pressoché insormontabile il problema delle distonie economiche esistenti tra Eurozona e Ue allargata senza disinnescare i paradisi fiscali – Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi – che determinano concorrenza sleale tra gli stessi Paesi membri. Serve una netta scelta di campo: se si sta insieme, si pagano le stesse tasse. Sono perciò urgenti il completamento dell’Unione fiscale, il rafforzamento dell’Unione bancaria, che non penalizzi però i risparmiatori, e il varo di una Web Tax in grado di porre quanto meno un argine ai monopoli digitali, che solo in Europa tengono parcheggiata una liquidità di 450 miliardi di euro e godono di una vasta libertà tributaria. Ma qui siamo a metà del cammino.

Se lo spread da temere davvero è quello sociale, ampliato dalle crescenti disuguaglianze, quello finanziario può ricomporsi solo con la condivisione del debito pubblico perché non basta la moneta unica a promuovere la convergenza delle varie economie. Queste, insieme al rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo, al cambio dello statuto della Bce per trasformarla in prestatore di ultima istanza, all’utilizzo di almeno il 10% del bilancio comunitario per un Reddito di cittadinanza europeo, sono le riforme necessarie per completare un assetto che ha comunque portato benessere e prosperità.

Cambiamenti di fondo che possono essere promossi solo dai Governi nazionali, dalla politica che essi esprimono. Non arriveranno mai dai piani alti di palazzo Berlaymont, ma devono nascere dalla consapevolezza delle classi dirigenti, quelle sì assediate, del dovere di dare finalmente risposta alle esigenze dei cittadini. Con concretezza e non solo a parole.