Opinioni

Gli occhi ritrovati. Perché bussano, perché ci riguarda

Marco Tarquinio venerdì 4 settembre 2015
Eccoli gli invasori. Quelli più pericolosi, quelli che il terrore lo portano persino negli occhi. E denunciano la smisurata e fragile forza dei loro pochi anni. Eccoli gli «stranieri» che ci rubano il futuro. I nemici alle porte. Guardiamoli in faccia su questa prima pagina. E tremiamo, ma solo se non li abbiamo mai voluti vedere prima, e se abbiamo in qualunque modo prestato fede a quelli che li raccontano tutti brutti, sporchi e cattivi. Cresciuti in branco con ladri e stupratori, addirittura con i tagliagole.Qualcuno dedito al male ce ne sarà di certo tra coloro che rischiano la vita alle soglie di mare e di terra della nostra Europa (per questo bisogna strapparli alle ferree e ciniche regole dei trafficanti di carne umana e accendere finalmente la luce della legalità internazionale). E quasi tutti puzzano di sudore e di paura dopo viaggi nei quali il lavoro è solo schiavo, l’acqua non lava e poco disseta e il pane è amaro come ogni speranza affidata all’esilio. Ma può bastare una sola e potente goccia di verità per rendere di nuovo limpidi gli occhi di chi guarda avventure umane che non comprende pienamente o che stenta ormai a concepire e non riesce proprio ad accettare. Può bastare una goccia di verità per spazzare via dallo sguardo le ombre sospettose e tutte le malizie, le esagerazioni e le imprecazioni che fioriscono anche ferocemente sulla bocca degli xenofobi d’ogni risma e dei propagandisti dell’«invasione».In un giorno di settembre dell’anno 2015, le fotografie di un corpicino di bimbo restituito dal mare e raccolto dalle braccia pietose di un uomo in divisa hanno stillato di colpo in miliardi di persone questa terribile e liberatoria goccia di verità capace di ridare gli occhi ai ciechi e di ammutolire gli accecati. E ora, di colpo, il dolore è nudo, la consapevolezza della tragedia delle migrazioni di nuovo acuta, ferita aperta e insopportabile come nei giorni degli esanimi corpi neri e delle bare bianche a Lampedusa, nell’ottobre del 2013.È bene che sia così, che il male sia visto, riconosciuto, patito, esecrato. E non è inutile che ci arrovelli e si dibatta pubblicamente e con passione sull’opportunità o meno di pubblicare certe immagini, foto e filmati che turbano e angosciano. Ma è ancora più utile che lo scandalo avvenga. Che si dica e, più ancora, si gridi che non è possibile né umano che dopo due anni ancora a questo siamo. Che si ammetta finalmente che quel bambino restituito dal mare ha cominciato a morire il giorno in cui ha dovuto lasciare di soppiatto e senza aiuti, coi suoi genitori e suo fratello, una terra che per lui era casa e per altri solo un campo di battaglia spalancato e reso più atroce dalle complicità o dall’ignavia dei "grandi" del mondo.Ed è importante, molto importante, che si ascolti il padre di quel piccolo, che si capiscano bene le sue parole, e il suo passo, di unico sopravvissuto alla tragedia di un’intera famiglia che è diventata icona della tragedia di un intero popolo, anzi di due: il siriano e il curdo. Per lui, sposo senza più sposa e padre senza più figli, non c’è mèta desiderabile e ormai possibile, c’è solo un disperato ritorno al punto di partenza, nell’insanguinata Kobane.È così. Si emigra, totalmente inermi, dalla propria patria per desiderio di pace, per ansia di domani, per amore. Non per altro. Non si emigra per odio. Ma emigrando si può disimparare l’amore, venire contagiati dall’indifferenza e sfigurati dall’egoismo, riprecipitare nell’odio che si esprime al massimo grado nella guerra. O si può essere svuotati di affetti e di speranza. Proprio come questo padre. Che è come morto con la sua distrutta famiglia.Non ci toglieremo più dalla testa e dal cuore le parole di un uomo spezzato e l’immagine di suo figlio, bimbo senza vita sulla riva del nostro mare ancora d’estate. Perché sappiamo e non possiamo dimenticare che è finita così perché padre e figlio avevano bussato fuori dalle regole – cioè in modo sbagliato e fai-da-te, cioè, come sbraita più d’uno, da "clandestini" – alla porta d’Europa, e l’avevano fatto perché nessun’altra e più sicura via era stata loro offerta.Perché nessuno tra quelli che hanno molto potere – al Palazzo di Vetro dell’Onu, a Bruxelles e nelle cancellerie della Ue, a Mosca, a Pechino, nelle stanze della Lega araba – ha ancora fatto proprio e dimostrato non retorico e vano l’appello ad aprire canali regolari e protetti per i profughi. Appello che i vescovi italiani hanno riproposto con voce appassionata e autorevole facendo eco alla predicazione di papa Francesco, che anche noi abbiamo più volte ripetuto e che pochi giorni fa, il primo settembre, Ernesto Olivero ha scandito, alla sua inconfondibile maniera, sulle nostre pagine: «Andiamoli a prendere!». Andiamoli a prendere noi, strappiamoli a chi li sfrutta, li uccide o li lascia morire.Non possiamo e non vogliamo che ci si dimentichi di quel bimbo, e della sua famiglia, di ogni altro bambino che striscia sotto matasse di filo spinato o piange davanti a una selva di manganelli, di ogni profugo colpevole di esser vittima e di non rassegnarsi. Sappiamo e vogliamo che si capisca una volta per tutte che così tanti bussano oggi alle nostre porte perché anche noi abbiamo divelto le porte delle loro case. Con la guerra e l’ingiustizia che abbiamo incentivato o tollerato, con le armi che abbiamo messo nelle mani dei combattenti e sopra le loro teste, con i consigli (e i consiglieri) che abbiamo schierato, con gli affari fatti (o lasciati fare) assieme a quelli che li mandano in battaglia e li sradicano dalle loro città e dai loro villaggi: bombe, petrolio, potere. E Dio stesso preso in ostaggio.Si ascolti davvero, e non appena con curiosità, il tredicenne siriano che ieri ha lasciato cadere un’altra goccia di verità nel vino degli arrabbiati e degli smemorati: «Fermate la guerra, adesso. E non verremo più a bussare». Un incipit che è la stessa preghiera rivolta da papa Francesco ai grandi del mondo, a ogni vero credente e a tutti coloro che sanno il valore della pace. Fermiamo la guerra, fermiamo le parole come di guerra, non rinunciamo a tenere aperti gli occhi che abbiamo ritrovato.