Opinioni

Striscia di Gaza. La resistenza delle donne tra pregiudizi, limiti e violenze

Laura Tangherlini martedì 6 settembre 2022

Studentesse dell’Università Al Azhar di Gaza, dove sono il 60% degli iscritti. Sebbene sia un impegno con pochi sbocchi: soprattutto per le ragazze trovare un impiego è praticamente impossibile

Lina, col suo velo a fiori nero, è una studentessa di giornalismo. Nel presentarsi alla delegazione di attivisti italiani ci tiene a sottolineare che il suo è un popolo che ama la vita. Nonostante la loro di vita sia a Gaza, una prigione a cielo aperto. Una manciata di chilometri quadrati sovrappopolati e su cui Israele ha imposto un blocco quasi totale su merci e persone da 15 anni, in risposta all’insediamento del governo di Hamas. Qui alla Al Azhar University il sessanta per cento dei tremila studenti sono donne. Soprattutto per loro, trovare poi lavoro è quasi impossibile. Come fosse stata una perdita di tempo aver studiato legge, scienze mediche applicate, business administration o tecnologia.

Neppure Fatiha che le siede accanto ha trovato un’occupazione, un titolo da infermiera che da due anni tiene in tasca mentre resta a casa. Sedute nell’aula altre due ragazze che sognano di trasferirsi negli Stati Uniti e diventare traduttrici di lingua inglese. Molte e molti studiano giornalismo, alcuni già collaborano per delle agenzie di stampa da qui, dalla Striscia. Non ancora Shadah, che ha solo 14 anni ed è qui insieme alla sorella Duah. Lei sì che studia da reporter in questo ateneo nato solo nel 2014. Entrambe sono figlie di un 'martire' – così lo definiscono – ucciso da un drone israeliano.

Incontro queste ragazze entrando nella Striscia assieme a una settantina di altri italiani attraverso il valico di Erez, con quella che è ormai la settima edizione della carovana del Gaza Free Style, la prima post Covid. Uno scambio umano, sociale e culturale promosso dal Gaza Freestyle in collaborazione con il Centro Italiano Vittorio Arrigoni e ACS Italia. Tra gli obiettivi della spedizione, rivolta anche quest’anno alle fasce più vulnerabili della popolazione, il primo forum internazionale delle donne. A prendervi parte oltre 300 lavoratrici o beneficiarie dei servizi di alcune ong operanti a Gaza ( We are not numbers, Union of Palestinian women Commettee, Palestinian development women association, Aisha - association for women and child protection, Creative women, Democracy & worker rights Centre). Tre giorni di incontri con la delegazione italiana. Il terzo, aperto alla presenza maschile. Lo scopo, partecipare a numerosi workshop tematici e condividere grandi o piccole battaglie, testimonianze di violenza domestica o dell’occupazione israeliana.

Dal forum è emerso ad esempio come, per le donne della Striscia, sia quasi impossibile immaginare di scegliere o arredare una propria casa o di vivere una vita indipendente da un qualsiasi uomo. Si sentono oppresse da un sistema patriarcale che le limita nella questione dell’eredità e in molte attività sociali. Come in Italia, seppure in modalità e contesti differenti, è una questione ben presente ma difficile da denunciare quella della violenza di genere. Anche qui si combatte una lotta per i diritti dei lavoratori. Ancor più per le lavoratrici cui andrebbe dato quindi supporto materiale e psicologico. In un contesto di alta disoccupazione dovuta all’embargo israe- liano, alle donne non sono concessi permessi per uscire dalla Striscia e lavorare in Israele. Inoltre, la maggior parte dei lavoratori preferisce assumere uomini per evitare di dover concedere congedi di maternità.

Anche sotto le bombe emergono dinamiche di diseguaglianze di genere. È la donna a doversi far carico e ad essere considerata responsabile dell’evacuazione dei bambini e degli oggetti tenuti in casa. Anche le donazioni e gli interventi governativi che seguono ai bombardamenti non tengono conto delle specifiche esigenze femminili. È in casa e vicino al mare che le donne si sentono al sicuro, lontano dai confini con Israele. Spesso però è una questione di tempo più che di luogo: qualsiasi senso di sicurezza scompare dopo le 21 se si è fuori dalla propria abitazione. È emerso infine che essere donna a Gaza significa soprattutto forza e pazienza. Le donne gazawi sono e sentono di essere le radici e il frutto della società. Fonti di ispirazione e di resistenza, che anche nella violenza e nella guerra hanno bisogno di dare sfogo alla propria creatività, seppure essa stessa spesso esprima l’ansia provata e il peso sopportato nella quotidianità.

La 22enne Marah Assouna da due anni ha un diploma in business administration, che è quasi carta straccia da queste parti. Dietro i grossi occhiali da sole, il velo e le tante storie che pubblica su TikTok, nasconde una vita il cui corso è stato deviato dalle poche opportunità. Ora passa gran parte del suo tempo sui pattini a rotelle. Avrebbe voluto seguire i suoi sogni, legati allo sport. Ma a Gaza i corsi di studio gratuiti erano altri, e non ha potuto scegliere. «Se potessi, andrei all’estero per rendere il mio hobby una professione. Poi però tornerei qui. Vorrei poter allenare altre ragazze. Il problema è che se a Gaza il lavoro non si trova, per noi femmine è ancora peggio. Ci vogliono a casa a cucinare e questo spesso ci rende depresse. Anche frequentare le rampe da skate e rotelle all’aperto per noi ragazze, in mezzo a tanti maschi, è considerato disdicevole! Ma poter incontrare in questi giorni tante italiane e sentirsi dire da loro che abbiamo tutto il diritto di portare avanti i nostri hobby è stato di gran sollievo!».

La sua amica Shahdu Heidi ha solo 16 anni ma le idee già chiare. Sui social è ancora più attiva di Mariah. «Gioco a scacchi, a ping pong, mi diletto nel doppiaggio. Pubblico podcast e video per mostrare al mondo intero che a Gaza non ci sono solo le bombe. La vita nella Striscia non è semplice, ma negli ultimi cinque anni abbiamo portato avanti una grossa battaglia per far capire a chi ci governa che avere interessi e passioni è un diritto anche di noi ragazze. Le cose pian piano stanno migliorando!». Anche Amal Abid Monem ha avuto coraggio. Sessant’anni, di Gaza city, è una mukhtar, una sorta di capo-villaggio che risolve le controversie. Un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini. Dopo il 2011, nonostante le resistenze di suo marito, è riuscita anche lei a indossare questi panni. Sacrificio, determinazione, senso del dovere, voglia di giustizia. Anche lei ha partecipato al forum. «La vita a Gaza – racconta – è molto difficile soprattutto per le donne. Spesso dipendono economicamente dai loro uomini, che non di rado abusano di loro. Questo forum ci ha permesso di raccogliere le esperienze di altre donne straniere e di poterle mutuare e adattare alla nostra società».

Andare sullo skate e pattinare su una delle due rampe presenti a Gaza, costruite negli anni dal Gaza Free Style, è uno dei pochi passatempi consentiti ai giovani della Striscia. Meno, alle giovani che vi accedono comunque, pattini o skateboard in mano, ma velate, quasi mimetizzate e negli orari meno affollati, per sottrarsi al rischio di sguardi indiscreti, rimproveri, molestie. Rajab al Reefi da queste parti è una sorta di idolo per gli appassionati di rotelle. È un giovane insegnante di skateboard, che pratica dal 2014. Inizialmente insegnava anche a delle ragazze. Il tutto era nato proprio grazie al contatto con le attiviste italiane entrate a Gaza. «Dopo il loro rientro a casa però – racconta – per me è diventato quasi impossibile continuare a insegnare a sette femmine che nel giro di un mese erano diventate 21. Le allenavo alla rampa del porto ma solo il venerdì mattina, quando per strada non c’è quasi nessuno. Poi però il governo di Hamas per una questione religiosa e di tradizioni ha fatto storie, e le famiglie ci hanno chiesto di trovare per loro un luogo chiuso. Per ora aspettiamo...».