Opinioni

Immigrati, riparte il dibattito sulla cittadinanza. Fratelli d'Italia diventati ormai figli

Giorgio Paolucci venerdì 14 novembre 2008
Beibei Zhang è nata in Cina nel 1979 e si è laureata in ingegneria al Politecnico di Milano. Ivanna Knysh è arrivata dall'Ucraina nel 1986, oggi è caporale della brigata Friuli. Stefano Chuka Okaka, nato a Castiglione delle Stiviere da genitori nigeriani emigrati in Italia per motivi di studio, è calciatore della Roma e della nazionale under 21. Ammettiamolo: fa un certo effetto pensare che Zhang, Knysh e Okaka siano diventati tre cognomi "italiani". Le loro storie di successo, salite alla ribalta durante la cerimonia che si è svolta ieri al Quirinale per festeggiare l'acquisizione della cittadinanza, sono segni dei tempi che ci ricordano quanto l'immigrazione non sia più " e da tempo " un fenomeno transitorio, ma una realtà profondamente radicata. Fino a candidare alcuni dei suoi protagonisti all'ingresso a pieno titolo nella comunità nazionale. Basta con i pregiudizi, ha detto Napolitano, occorre favorire un clima di apertura verso gli stranieri che si fanno italiani. E a questo fine le istituzioni devono realizzare politiche di integrazione più efficaci e rivedere norme e prassi per il conferimento della cittadinanza. Un traguardo a cui nel 2007 sono approdati 38mila stranieri. Non pochi in termini assoluti " il doppio del 2005 " ma molti di meno rispetto a quanti legittimamente vi aspirano e devono fare i conti con lungaggini burocratiche e con una legge che, come ricorda il presidente della Camera Fini, si sta rivelando inadeguata. Non perché sia vecchia, ma perché rispetto a quando venne varata (1990), la società è profondamente cambiata. È perciò opportuno riavviare a livello politico un confronto che non si limiti a dibattere sul numero di anni necessari a ottenere la cittadinanza (attualmente dieci) ma metta a fuoco come favorire e come misurare l'effettiva adesione a un alfabeto comune della convivenza. Il problema di fondo sta proprio qui, in questo alfabeto. Per troppo tempo l'immigrazione è stata vissuta come una realtà meramente economica, lasciando in second'ordine gli aspetti legati a un'integrazione effettiva, che comporta conoscenza della lingua, politiche abitative, accesso ai servizi scolastici e socio-sanitari, pagamento delle tasse, rispetto delle leggi. Diritti certi e doveri su cui non transigere, non solo salari e contratti di lavoro. Un vero e proprio «patto» che chiunque voglia mettere radici in questo Paese, anche se non ambisce a ottenere la cittadinanza, deve impegnarsi a sottoscrivere. Per questo il Quirinale invita a evitare «innesti frettolosi che si rivelerebbero artificiali e fragili» e che rischiano di trasformare una fonte di arricchimento in un fenomeno caotico, più subìto che governato. Il monito del ministro Maroni è a questo proposito eloquente, e in qualche misura legato alle preoccupazioni del Carroccio rispetto al nodo dei nuovi flussi in entrata: un'apertura indiscriminata delle frontiere non riuscirebbe a garantire un'integrazione effettiva in condizioni sostenibili da parte del Paese. E tuttavia anche la Lega è chiamata oggi a fare proprie le parole del capo dello Stato. Ma per chi punta al traguardo più ambizioso, quello già raggiunto da Beibei, Ivanna e Chuka, c'è un percorso più impegnativo, ricordato a chiare lettere dal capo dello Stato: «Per diventare italiani è necessaria una piena identificazione con i valori di storia e di lingua e con i principi giuridici e costituzionali che sono propri della nostra nazione. E che noi d'altronde dobbiamo tendere a consolidare anche nella coscienza di quanti sono nostri cittadini da sempre». Dunque, si dev'essere esigenti con chi si candida a diventare nostro connazionale e insieme con noi stessi, perché sappiamo tenere viva la coscienza (troppo spesso annebbiata) di ciò che significa essere italiani.