Opinioni

editoriale. Figli dell’eterologa, la Corte «dimentica» i piccoli

Andrea Nicolussi giovedì 12 giugno 2014
​Dopo aver letto le motivazioni appena pubblicate della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto di Procreazione medicalmente assistita (Pma) eterologa è difficile negare, nonostante qualche ambiguità del testo, che si tratti di una sentenza additiva di principio, ossia di una sentenza che rimette alle autorità competenti la disciplina precisa dell’eterologa. Il principio affermato dalla Corte è chiaro: ogni coppia uomo-donna ha il diritto di essere riconosciuta legalmente come coppia genitoriale e quindi l’uso di gameti di estranei dev’essere ammesso dalla legge. Omologa ed eterologa pari sono. Tuttavia, le regole precise con cui questo principio deve integrarsi nell’ordinamento sono meno chiare.Come conciliare infatti la posizione del donatore di gameti con l’articolo 30 della Costituzione, secondo cui chi procrea un figlio è tenuto a mantenerlo, istruirlo ed educarlo? Purtroppo la sentenza della Corte non ce lo dice, perché – molto sorprendentemente – nell’intera motivazione, dell’articolo 30 non c’è alcuna traccia. Eppure si tratta dell’articolo più rilevante in materia, quello specificamente dedicato alla filiazione e che molto probabilmente, se preso sul serio, avrebbe fatto propendere per una diversa decisione in favore del diritto del figlio di crescere ed essere educato nella propria famiglia senza dissociazione tra genitori legali e genitori genetici.
Immaginiamo pure l’ipotesi che il donatore sia esonerato dalla responsabilità genitoriale, come prevede l’articolo 9 della legge 40/2004, che però è dettato per i casi di eterologhe precedenti alla legge oppure realizzate all’estero e quindi in condizioni tali per cui l’ordinamento italiano può fare ben poco. Rimane tuttavia quantomeno il problema dell’anonimato e del diritto di conoscere le origini anche in relazione alle esigenze di tutela della salute. Su questo punto la sentenza fornisce due parametri tra loro contraddittori: la disciplina sulla donazione di tessuti e cellule umani e la disciplina sull’adozione, le quali offrono indicazioni disomogenee se non opposte. Il primo riferimento è alquanto generico perché riguarda la messa a disposizione di materiale biologico in senso ampio a uso clinico, mentre la donazione di gameti è rivolta a dare origine a una vita umana. Ora, la disciplina della donazione di tessuti e cellule solleciterebbe alla tutela dell’anonimato del donatore. Al contrario, il parametro dell’adozione, ben più appropriato perché inerente al diritto di famiglia, prevede il dovere dei genitori adottivi di far conoscere all’adottato la propria condizione di figlio adottivo e il diritto di quest’ultimo, dopo i 25 anni, di avere notizia dei genitori biologici. Perché allora mettere insieme discipline di materie ispirate a logiche molto diverse?
Forse proprio il fatto che la sentenza trascuri l’articolo 30 della Costituzione è un indice per interpretare questa ambiguità. Infatti, il richiamo alla legge su tessuti e cellule evidenzia una sottovalutazione dei profili inerenti alla filiazione e alla tutela dei figli in favore di una concezione tecnocentrica della Pma che la separa dalle vite delle persone coinvolte. Si pensi tra l’altro che con riguardo alla cessione dei tessuti potrebbe avere rilievo l’interesse del donatore a conoscere il destino del proprio materiale biologico, così come il diritto di limitarne l’uso solo per certi scopi da parte di chi l’abbia ricevuto. Ad esempio, per motivi personali un cedente potrebbe escluderne l’uso per certe parti del corpo umano. Dobbiamo immaginare qualcosa di simile anche per il donatore di gameti il quale voglia escludere tra i destinatari certe categorie di persone? Evidentemente no, se non vogliamo avallare forme di razzismo o altre lesioni della dignità umana.
Del resto, quanto all’adozione, sempre in base al negletto articolo 30 della Costituzione, essa è un istituto di solidarietà familiare per il caso di incapacità dei genitori naturali, non un’alternativa concorrente alla filiazione dei genitori biologici. Perciò mentre nel caso dell’adozione la tutela del diritto di conoscere le proprie origini deve scontare il fatto che si tratta di un figlio abbandonato da persone delle quali potrebbe essere difficile o non opportuno conoscere l’identità, la fecondazione eterologa consiste propriamente e fin dall’inizio nella separazione del donatore dal figlio che sarà concepito con i suoi gameti. In altre parole, l’eterologa esige una disciplina che ne regoli fin dall’inizio i profili di possibile riconoscimento del genitore genetico. E non solo per esigenze di ricostruzione dell’identità del figlio, ma anche per la tutela della sua salute nonché per evitare che un domani si scopra coinvolto senza saperlo in una relazione con un fratello o una sorella.
La Corte cita l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute, però lo cita solo a favore della coppia di aspiranti genitori e in relazione alle ipotetiche conseguenze della mancanza di figli. Ma il diritto alla salute dev’essere tutelato anche a favore del figlio. Ne deriva che al massimo l’ondeggiante riferimento della Corte tra la disciplina della donazione di tessuti e quella dell’adozione può valere come indicazione di principi tra i quali dovrà essere fatta una scelta e che in ogni caso hanno bisogno di essere concretizzati in una disciplina precisa. Come afferma in un passaggio la Corte stessa, «spetta alla saggezza del legislatore» di eliminare la carenza legislativa derivata dalla eliminazione del divieto in relazione ai rapporti che possono sorgere.
D’altra parte, non si tratta solo di regolare le modalità di inizio della tecnica di Pma eterologa che pure sono necessarie se non si vuole aprire a un business sregolato della riproduzione, cioè senza regole precise che si preoccupino soprattutto di chi nasce. Ad esempio, vi è il problema della certezza degli status cui la Corte accenna ma senza considerare che l’articolo 9 della legge 40/2004, mentre preclude l’azione di disconoscimento della paternità al marito o al convivente consenziente, non la nega alla moglie né al figlio stesso. In tal modo, il padre "eterologo" rischia di rimanere esposto all’azione di disconoscimento della moglie, una condizione di incertezza che potrebbe avere conseguenze negative sullo stesso figlio.
Un’altra questione che andrebbe regolata riguarda il rapporto fra il donatore e il minore nel caso in cui quest’ultimo cada in stato di abbandono, ad esempio in seguito alla morte dei genitori. La deroga all’articolo 30 della Costituzione può spingersi fino al punto di negare persino una responsabilità sussidiaria di tipo economico a chi ha pur sempre dato causa alla nascita di questa persona ora in stato di bisogno?