Opinioni

editoriale. L’euro, il capro espiatorio di un’Unione a metà strada

Marco Girardo martedì 13 maggio 2014
Hanno preso carta e penna, insieme, Joseph Stiglitz e Amartya Sen, e si sono chiamati fuori dal novero dei teorici "no euro" in cui, loro malgrado, erano stati da più fronti indebitamente arruolati. Una nota ufficiale vergata il 15 aprile scorso dai due Nobel per l’Economia stigmatizzava «il cattivo uso fatto delle nostre analisi sul funzionamento dell’euro, circostanza che vediamo ripetersi nei discorsi politici in Francia e in altri Paesi europei». La campagna elettorale per le europee in Italia non è immune dalla pratica del travisamento. In verità, afferma il duo laureato a Oslo, «siamo fortemente in favore di un’Europa più unita che, alla fine del percorso, arrivi a un’integrazione politica». Non ci vuole del resto un Nobel per constatare l’incompletezza che rende instabile l’architettura economica e finanziaria dell’Unione. Ma da qui a individuare nella moneta unica l’origine di ogni male – e nell’uscita dall’euro una sorta di palingenesi per un Italia vittimizzata – ce ne passa. La crisi ha provocato danni sociali fortissimi, certo. I limiti evidenti delle sole politiche di austerità pure. Ma gli slogan facili ad abuso elettorale rischiano di confondere causa ed effetto in una miscela esplosiva, anche sotto il profilo culturale, di approssimazione e populismo. La speculazione politica ha tuttavia gioco facile ad alimentarsi del fatto che nessuno possa valutare a priori con sufficiente scientificità le conseguenze dell’"Eurexit". E giù a straparlare senza timori di smentita nel più classico meccanismo del "capro espiatorio" da psicologia di massa. Gli uomini non hanno paura del negativo, diceva Max Weber, ma dell’indeterminato. Consolatorio allora trovare un colpevole per non affrontare la complessità del momento storico. E troppo spesso, purtroppo, vince chi dimentica.
Ci sono però delle evidenze empiriche che dimostrano come l’euro abbia portato consistenti benefici soprattutto a un Paese quale è l’Italia. E la possibilità di effettuare comparazioni con situazioni quanto meno analoghe per stimare l’onere – forse insostenibile – di un eventuale addio alla moneta unica. Partiamo allora da quello che viene considerato dagli euro-detrattori il peccato primigenio: adottare una moneta unica. L’Italia avrebbe così perso la sovranità monetaria e con essa la possibilità di svalutare la moneta. Penalizzando le sue esportazioni e quindi, di fatto, imprese e lavoro. Non solo: la nuova moneta avrebbe scatenato un innalzamento indiscriminato dei prezzi. Il primo a salire sul banco degli imputati sarebbe dunque il tasso di cambio "impostoci" dai tedeschi. Le cose andarono in realtà un po’ diversamente.
Il giorno preciso in cui si stabilì il cambio lira euro fu il 24 novembre del 1996, in quello che da molti è considerato l’appuntamento internazionale in cui l’allora il ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, riuscì a piegare la resistenza del "falco dei falchi", il governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer. La moneta di riferimento era il marco tedesco. L’Italia era uscita dal Sistema monetario europeo nell’autunno 1992, pagandone le conseguenze con una svalutazione vicina al 50%. Per rientrare nello Sme, Roma doveva trattare un tasso di cambio ritenuto corretto dai partner europei. Viene riesumata oggi un’obiezione di principio: meglio sarebbe stato non esserci mai rientrati, nell’Eurozona. Con una moneta svalutata, si dice, gli italiani sarebbero oggi più ricchi e le nostre imprese più competitive. Ma lo scarto fra il Pil pro capite italiano e quello dei Paesi Ue è iniziato ad aumentare a nostro svantaggio nel 1992. E non si è più ridotto. Insomma: abbiamo iniziato a perdere ricchezza ben prima dell’euro. In ogni caso non si poteva scegliere autonomamente a quale soglia rientrare: il "peso" di una moneta è stabilito dalle forze di mercato. Il cambio medio di mercato era all’epoca di 1.026 lire per marco (circa 985 lire per marco proprio in quei giorni). Tedeschi e olandesi ritenevano che un cambio corretto fosse 925 lire per marco. Ovvero una supervalutazione della lira corrispondente a una svalutazione del marco. Per favorire, naturalmente, le esportazioni tedesche. Vinse la linea Ciampi: il cambio fu fissato a 990 lire per marco, soglia vicina ai valori di mercato in grado di salvare da un lato la competitività delle nostre imprese, di scongiurare dall’altro una spirale svalutazione-caroprezzi che ci avrebbe costretto, essendo importatori di materie prime, a "mangiare" anche inflazione. Quota 990 costituì la base per l’adozione della moneta unica a fine 1998: le famose 1.936,27 per un euro.
Innegabile che la divisa comune, una volta nelle tasche degli italiani, provocò un aumento per alcuni beni ad alta frequenza soprattutto alimentari. Più in generale, però, il tasso d’inflazione curvò per diversi anni verso il basso. Ma lo smarrimento percettivo di molti consumatori circa il valore reale dell’euro rispetto alle vecchie lire venne sfruttato a dovere da pratiche speculative fuori controllo. Meglio sarebbe stato, col senno di poi, imporre l’obbligo di una doppia esposizione dei prezzi per lungo tempo. O addirittura lasciare la possibilità di scegliere la valuta con cui pagare per almeno due anni: unita a controlli severi, la doppia circolazione avrebbe accresciuto la consapevolezza di quanto valessero quelle "monete da 2" che sembravano spiccioli e corrispondevano invece a 4.000 lire. L’Italia e le sue finanze sono stati in ogni caso letteralmente salvati dall’euro e da quel tasso di cambio. Il risparmio di spesa per interessi dal 1997 al 2000 è valutabile in almeno 180 miliardi: hanno contribuito per oltre l’80% alla riduzione cumulata di un deficit pubblico che toccava i 220 miliardi.
Abbandonare la divisa comune sarebbe dunque una soluzione? Una moneta "svalutata", sostengono i fautori dell’"Eurexit", aiuterebbe le imprese italiane a esportare. Il nostro vero handicap resta tuttavia la stagnazione dei consumi, che una svalutazione della moneta non contrasterebbe. Dal 1999 al 2012 i Paesi dell’Eurozona sono cresciuti in media dell’1% l’anno. L’Italia è rimasta ferma: problemi interni, non della moneta. Il guadagno di competitività sul breve periodo sarebbe in ogni caso accompagnato da un aumento poderoso dell’inflazione. Questa sì una "patrimoniale universale", con cui lo Stato mette le mani nelle tasche dei cittadini. Soprattutto di quelli che non possono ancorare i redditi ai prezzi o "diversificare" i risparmi. La spirale svalutazione-inflazione, specialità di molti Paesi sudamericani anche in epoca recente, l’Italia la conosce bene. Eppure si dimentica con troppa leggerezza cosa significhi vivere con un’inflazione a due cifre. In brevissimo tempo le imprese brucerebbero, visto che importano oltre le metà delle materie prime e dei semilavorati, la competitività guadagnata. Per quel che riguarda il risparmio delle famiglie, invece, in previsione di un addio alla moneta unica per abbracciare una divisa svalutata fra il 30 e il 50%, scatterebbe con alta probabilità una fuga di capitali all’estero stile Grecia o Cipro. Sarebbe allora necessario inserire dei vincoli ai movimenti e, forse, anche vincoli ai prelievi per evitare un crollo delle banche. L’ultima grande svalutazione di cui fummo vittime risale al 1992. In pochi mesi la lira bruciò il 60% del suo valore rendendo tutti gli italiani più poveri. Ma un conto è uscire da un sistema di cambi fissi, come è accaduto in Argentina, altro da un unione monetaria: gli effetti sarebbero amplificati. Quanto al debito pubblico, non ne beneficerebbe se trasformato i lire. L’operazione sarebbe al massimo neutrale. La quota dei titoli emessi sui mercati internazionali, invece, si trasformerebbe in debito in valuta estera, diventando più oneroso. Vanno pure messi in preventivo i contenziosi infiniti per le aziende che hanno emesso obbligazioni internazionali o contratto debiti con l’estero. Ne sanno qualcosa i tanti italiani che hanno visto rimpicciolirsi fra le mani i loro Tango Bond.
Almeno la politica monetaria, si obietta ancora, tornerebbe nelle mani di una Banca d’Italia in grado di "manovrare" la lira. Di svalutarla cioè a piacimento quando serve. Overdose da inflazione a parte, la sovranità monetaria – come ha spiegato Lorenzo Bini Smaghi in "33 False verità sull’Europa" – è appunto un falso mito. Prima dell’euro l’unico Paese in Europa in grado di pilotare la politica monetaria con la sua Banca centrale era la Germania. E vi ha rinunciato entrando nell’euro. Gli altri Paesi mantenevano invece un rapporto stretto tra le loro monete e il marco. I rapporti di cambio erano comunque stabiliti dal mercato, non da una Banca d’Italia che aveva fra l’altro già divorziato dal Tesoro. C’è infine la mozione anti-euro più sofisticata, quella accademica: l’Eurozona non è un’area valutaria ottimale, ed è quindi destinata a implodere. Vero: non lo è. Ed è pure facilmente constatabile come l’euro abbia generato nei suoi 15 anni di vita più divergenza che convergenza, conducendo con la crisi a penalizzazioni eccessive per i Paesi periferici. Ma un’area valutaria ottimale prevede, oltre alla completa integrazione dei mercati finanziari, anche un’integrazione fiscale per far fronte agli choc. Quello che manca all’Eurozona. Non è un euro da abbandonare, quindi, semmai quel che resta dell’Europa da costruire. Dicono Stiglitz e Sen, ma lo suggerisce anche il buon senso: «Un’unione monetaria dovrebbe andare di pari passo con un’Unione bancaria e di bilancio, due cose che noi speriamo possano esistere al momento opportuno». La prima è cominciata. Per la seconda dipenderà molto, oltre che dai capi di Stato e di governo, anche dall’Europarlamento che uscirà dalle urne a fine maggio.