Opinioni

L'uccisione di Giovanni Bonsignore. Eroi sconosciuti nel mondo di furbi

Antonio Maria Mira lunedì 12 maggio 2014
Alle 8,30 del 9 maggio 1990 veniva ucciso Giovanni Bonsignore, funzionario dell’assessorato alla cooperazione della regione Sicilia. Sì, il 9 maggio come Aldo Moro e Peppino Impastato. Un delitto, anche quello, contro la buona politica, la buona amministrazione, la pulizia e l’onestà. Purtroppo dimenticato, ma molto attuale in questi giorni di nuova bufera su tangenti, corruzione, appalti e affari che rischia di travolgere tutto e tutti. L’omicidio di Bonsignore aveva, infatti, «l’obiettivo» di colpire chi si opponeva «alle regole, non scritte ma ancora più ineludibili, della spartizione degli appalti, dei finanziamenti mirati e gestiti da chi li ha fatti ottenere, dei favori elargiti in cambio di concreti appoggi, delle tangenti travestite da consulenza, delle intermediazioni pagate come contributi tecnici, dei servizi pretesi magari con un sorriso minaccioso». Parole lontane, eppure amaramente attuali, scritte nel dicembre 1991 da un politico galatuomo, Gerardo Chiaromone, allora presidente della Commissione Antimafia, che all’omicidio dedicò una relazione. Allora come oggi è sbagliato, fuorviante e anche ingiusto dire che «tutti rubano» in politica come nell’amministrazione. «Non tollero che si dica questo», afferma con forza anche Piercamillo Davigo, ex pm del pool "Mani pulite". Se c’è chi accetta un "sistema" di corruzione e illegalità, chi incassa mazzette e favori, c’è anche chi dice «no». Lo fa in silenzio, spesso isolato. «Ma chi te lo fa fare...», il commento dei colleghi, «tanto lo fanno tutti». Invece, no. C’è altro, ci può e ci deve essere altro. Funzionari che «talvolta, vengono definiti "scomodi"», aggiungeva ancora Chiaromonte, ma Bonsignore «in realtà faceva fino in fondo il proprio dovere, con la massima serietà ed onestà, senza mai prestarsi a manovre clientelari». Per questo venne trasferito, e poi ucciso. Così come, nove anni dopo, il 5 luglio 1999, accadde a un altro funzionario regionale, Filippo Basile, che «faceva fino in fondo il proprio dovere». Non accettava il «pane sporco» della corruzione, come lo ha definito Papa Francesco. Morire di buona amministrazione, come di buona politica. È triste ricordarlo, ma è un dovere civile e morale. Soprattutto oggi.