Opinioni

I dati in Italia. Emergenza solitudini, la «malattia» meno capita e più grave

Marco Impagliazzo sabato 22 settembre 2018

Gli italiani sono più soli. Il Rapporto Istat di quest’anno, come quello di Eurostat lo scorso anno, sulle reti e relazioni sociali nel Paese, mettono a fuoco anche questa realtà: la solitudine crescente degli italiani. Il 13% dei nostri concittadini non ha una persona cui chiedere aiuto: è il dato più alto a livello europeo. Per l’Istat tre milioni di abitanti della Penisola dichiarano di non poter contare su alcuna rete di sostegno (parenti, amici, vicini, realtà associative; mentre aumentano le famiglie composte da una sola persona (il 21,5% nel 1998, ben il 31,6% nel 2016).

La pubblicazione, lo scorso 6 settembre, del report – ancora Istat – sulla popolazione residente per stato civile ci aiuta a guardare al fenomeno di cui sopra come a qualcosa di strutturale. Non siamo in presenza, infatti, di un dato legato al progressivo invecchiamento della popolazione, per cui è normale ci siano più vedovi/e.

Quando si legge che «nella classe di età 15-64 anni i coniugati e i celibi quasi si equivalgono (ammontano ciascuno ad oltre 9 milioni, rispettivamente il 49% e il 47,7% del totale della popolazione di quella fascia di età)», ovvero che «la diminuzione e la posticipazione della nuzialità in atto nel Paese hanno prodotto un crollo particolarmente evidente della condizione di "coniugato" tra i giovani adulti», ci si rende conto di vivere in una società il cui tessuto connettivo è più poroso e friabile, costituito da milioni di persone sole, con pochissimi legami stabili e difficoltà a fare rete.

I commenti relativi al report si sono focalizzati sul mutare dei comportamenti familiari, sulle prime unioni civili, sul boom dei divorziati (più che triplicatisi nel giro di un quarto di secolo). Ma il nodo della questione non è di costume: è culturale e antropologico. La gente è più sola. Assistiamo all’avanzare di un nuovo tipo di umanità, sempre meno sociale e sempre più solitaria nell’avventura della vita. Con tutte le implicazioni politiche, economiche e sociali, che questa vera e propria rivoluzione porta con sé sul medio e lungo periodo.

Siamo di fronte al laboratorio di una nuova società, quella del secolo che avanza, di una globalizzazione che fa perno sul vivere in città, ma distanti gli uni dagli altri. Si va disegnando un mondo in cui convivenza e isolamento coesistono, così come massificazione e solitudine si danno man forte.

Oggi si tratta di garantire una tenuta sociale non più cementata da nuclei familiari o da reti di appartenenza ed è quindi, sempre più necessario, tessere legami di condivisione e di speranza tra soggetti più distanti e diversi che in passato.
La vita diventa inesorabilmente individuale sui grandi scenari del mondo globalizzato. Le forme comunitarie, familiari, solidali, scivolano al secondo posto rispetto a una vita solitaria. Le fisionomie di socialità "virtuale" affiancano o sostituiscono quelle più tradizionali. Soprattutto per i giovani e i giovani adulti. Vivere individualmente è tanta parte dello spirito del nostro tempo. E così, oggi, l’uomo e la donna sono più soli.

Senza contare che la solitudine è un peso ulteriore per chi è malato, fragile, povero. Soffre di più nella solitudine chi si colloca agli estremi temporali della vita, il bambino e l’adolescente, ma soprattutto l’anziano. Possiamo fare a meno dell’aiuto dell’altro? Questa è la grande domanda di fronte alla stagione che viene. Più grande anche delle questioni e delle paure che ci agitano nel quotidiano e che spesso sono frutto di propagande maliziose e di percezioni sbagliate. Il vero, grande, problema – umano, spirituale e politico – è che le nostre città sono popolate da molte, troppe solitudini; che la nostra società è malata di solitudine. Eppure, ammalarsi non conviene.

L’antica saggezza delle pagine della Bibbia – tra cui l’affermazione di Dio nella Genesi: «Non è buono che l’uomo sia solo» – ci chiama a ripensare tante scelte che quotidianamente ci allontanano, rendendo più dura l’esistenza di ognuno. In questo senso la vita cristiana, che è la relazione con "l’altro", come ci ricorda sempre papa Francesco, può essere una risorsa per tutti. È nostro compito testimoniarlo facendo presente che la debolezza è una condizione esistenziale e, in qualche modo, universale. Che si può esorcizzare nel brivido dell’autoreferenzialità o della virtualità, come avviene su larga scala. Ma dato che appartiene alla condizione umana e non si potrà mai cancellare, conviene affrontarla il più possibile insieme e non da soli. È uno dei motivi per cui è davvero urgente – come sottolinea il cardinal Bassetti – «rammendare» il tessuto della società italiana e rigenerare quelle reti sociali e umane che si sono tanto sfilacciate.