Opinioni

Fine vita: dire sì alla legge sulle «Dat». Testo ben ispirato e ormai necessario

Marco Impagliazzo martedì 15 marzo 2011
Il dibattito di questi giorni in merito alla proposta di legge sul fine vita, che la Camera voterà in aprile, è utile ricordare che il testo approvato dal Senato il 26 marzo 2009 si ispira a un parere del Comitato nazionale di bioetica del dicembre 2003. Questo organismo è rappresentativo di tutte le posizioni politiche e culturali presenti in Italia. Malgrado ciò il testo del ddl Calabrò e le sue evoluzioni suscitano ancora polemiche e contrapposizioni. Probabilmente non è estranea a questa ripresa di dibattito la vicenda dolorosa di Eluana Englaro. E tuttavia le norme contenute nel disegno di legge in esame sono dettate da buon senso. Già l’adozione dell’espressione «dichiarazioni anticipate di trattamento» (Dat) al posto di «testamento biologico» – come espressamente suggerito dal Cnb – è chiarificatrice. «Testamento» è atto giuridico vincolante tale da non potersi applicare a un processo decisionale che coinvolge necessariamente più persone e che ha a che fare con la vita umana.Molti sostenitori dell’autodeterminazione incondizionata – la cosiddetta linea pro choice secondo cui le Dat debbono avere valore assoluto – citano a loro favore la Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, adottata dal Parlamento italiano nel 2001. Tuttavia nella medesima legge, all’articolo 9, si afferma che i desideri precedentemente espressi dal paziente devono essere presi in considerazione, non recepiti come un obbligo. L’impianto della proposta di legge si basa in gran parte su quella che viene definita l’«alleanza terapeutica» tra medico e paziente. Coloro che vivono in precarie condizioni di salute sanno bene quanto è delicato e importante stabilire un legame personale e di fiducia con il proprio medico: la malattia pone un carico di domande esistenziali, di dubbi, di paure, che richiedono ascolto e dialogo. Emergono anche convinzioni profonde, sensibilità, che il medico deve saper recepire. Di fronte a scelte ultimative come quelle sul fine vita un rapporto così unico e speciale non può essere cancellato da atti unilaterali. Il parere del Comitato di bioetica del 2003 diceva che «le Dat hanno il compito di rendere ancora possibile un rapporto personale tra il medico e il paziente proprio in quelle situazioni estreme in cui non sembra poter sussistere alcun legame tra la solitudine di chi non può esprimersi e la solitudine di chi deve decidere». Ecco perché le Dat non possono mai essere considerate alla stregua di un atto notarile, sottoscritto una volta per tutte, che il medico è obbligato ad applicare alla lettera. L’alleanza terapeutica è sempre dialogo ed «è come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte».Nelle stessa logica, la proposta di legge chiede che le Dat vengano rinnovate entro un determinato periodo di tempo. Si tratta di una misura saggia. È noto quanto le convinzioni personali siano mutevoli e soggette a molteplici fattori che includono le condizioni di vita, la qualità delle relazioni, le sollecitazioni dell’ambiente, i cambiamenti della tecnologia. Anche in questo caso il documento del Comitato di bioetica è illuminante: «La persona chiede che i suoi desideri siano rispettati, ma chiede che lo siano a condizione che mantengano la loro attualità e cioè solo nel caso che ricorrano le condizioni da lui stesso indicate».Tempo fa un pensionato di Roma scrisse a un giornale una lettera in cui diceva: «E se io, ora che sono sano, firmo un biotestamento ma dopo, nel momento cruciale, quando non ho più possibilità di farmi capire, non desidero più accorciare la mia vita perché sento e vedo ancora, come faccio a tornare indietro dal momento che mi fanno morire di fame e di sete? In pratica avrei firmato la mia condanna a morte».Regolare tali tematiche per legge è sempre rischioso. Come affidare una questione umana così delicata alle rigidità di un codice? La Chiesa, prima della vicenda Englaro, aveva più volte espresso diffidenza verso interventi normativi che introducessero forme di biotestamento legalizzato. Del resto, non l’accanimento terapeutico – peraltro severamente vietato già dal Codice di deontologia medica – è oggi il problema in Italia, quanto l’abbandono terapeutico, oltre che sociale, di migliaia di persone che vivono in condizioni liminari. Tuttavia oggi appare più rischioso affidarsi all’arbitrarietà delle decisioni dei tribunali, che possono disporre la sospensione dei trattamenti vitali quando la malattia arriva a un certo stadio, anche sulla base di presunte volontà mai scritte, ma dedotte dagli "stili di vita". Per questo una legge di indirizzo sul fine vita è ormai necessaria.