Opinioni

La posta dello scontro in Val di Susa. Non per diktat ma per futuro

Antonio Giorgi martedì 28 giugno 2011
Anche se l’ala oltranzista dei No Tav si è affrettata a dire che "perdere una battaglia non è perdere una guerra", la rimozione ieri mattina delle barricate di Chiomonte in Val Susa e la consegna dell’area alle imprese che realizzeranno la nuova ferrovia Modane-Torino segnano un punto a favore dello Stato e un passo avanti nel tormentato avvio di una infrastruttura per la quale l’Italia rischiava di perdere i contributi europei. O si comincia entro il 30 giugno, o addio finanziamenti.Cosa succederà adesso è immaginabile: l’area occupata dagli oppositori dell’alta velocità sarà occupata da contingenti di polizia per garantite l’operatività dei cantieri. Per dirla banalmente, a una militarizzazione della zona (che altro sono, infatti, i presìdi no-tav e le barricate che impediscono il libero transito, se non una forma di militarizzazione?) ne seguirà un’altra, questa volta sotto le insegne dello Stato. Espugnato Fort Apache, si cercherà di fare in modo che dalle sue ceneri non ne sorga un altro.E qui veniamo al punto. Nella annosa vicenda, quasi una telenovela, della costruzione di una ferrovia d’avanguardia affiancata al vecchio tracciato del 1871 si affrontano due orientamenti inconciliabili. Il primo è quello di chi crede che ogni ostacolo o opposizione possa essere superato con i manganelli, secondo una vetusta concezione dei rapporti sociali e politici che porta a ritenere che in Italia i problemi siano essenzialmente dei problemi di ordine pubblico. Nel secondo si riconoscono quanti opinano che la modernità di un territorio – la Val Susa, nel nostro caso – possa essere declinata inseguendo il miraggio bucolico di uno sviluppo fatto di agricoltura di nicchia, turismo a basso impatto ambientale, energie rinnovabili, niente traffico, niente asfalto né cemento né Tir, cielo azzurro e aria pulita. Belle cose, soprattutto il cielo azzurro e l’aria pulita, che non è detto siano davvero in questione. E, poi, il mondo è più complesso di quanto sembri e viaggia con un ritmo estremamente più rapido dei treni che si infilano nel tunnel del Fréjus scavato da Grattoni e Sommeiller.Non equivale a dare un colpo al cerchio e uno alla botte se si afferma che i due orientamenti sono entrambi perdenti e destinati a soccombere di fronte alla rilevanza del problema ineludibile di dotare il Paese, e con esso l’Europa alpina e mediterranea, di una infrastruttura che assolverà un compito più essenziale della riduzione dei tempi di percorrenza dei viaggiatori tra Torino e Parigi, dato l’appeal crescente dell’aereo a basso costo. Una ferrovia moderna ad alta capacità – connessa con la rete francese da una parte (là non hanno fatto tante storie: sono pazzi o votati al suicidio?) e, dall’altra, con quella dell’Est – una volta completato il prolungamento da Milano a Venezia e oltre, significherà la rivoluzione del trasporto merci, meno autotreni, meno incidenti, meno inquinamento, meno petrolio, meno oneri per le aziende. Significherà nuovi posti di lavoro, più investimenti e più Pil. Significherà ammodernamento del sistema Italia, che soffre di carenze infrastrutturali intollerabili. Tutte ricadute che valgono abbondantemente la spesa.Che futuro vogliono per il Paese e per i loro figli i professionisti dell’opposizione a tutti i costi? Lo spieghino. Se la preoccupazione è l’amianto (presente in Val Susa), scienza e tecnica sono in grado di offrire ogni doverosa garanzia, ma se una frangia minoritaria pensa di reggere la sfida del presente e del futuro, con battaglie di retroguardia fatte a colpi di no, strumentali o meno, che bloccano il Paese, sarà comunque sconfitta da un’idea e una pratica possibili e sostenibili della modernità.Sarà il consenso di un’opinione pubblica informata e riflessiva a piegarla ad ampia maggioranza e mai per diktat. Senza che debba intervenire la polizia.