Opinioni

L'autochiusura per spionaggio di News of the world parla anche all'Italia. Libertà e senso del limite

Giorgio Ferrari venerdì 8 luglio 2011
Si narra che un giornalista del Times, all’epoca influentissimo foglio londinese e modello per migliaia di emulatori, perseguitasse il duca di Wellington, l’uomo che sconfisse Napoleone nella piana di Waterloo e riconsegnò l’Europa alla restaurazione, molestandolo ripetutamente e minacciando di divulgare – sul giornale che anche i re leggevano – alcune malefatte extraconiugali del duca. Il quale, ben conscio che la libertà di stampa era un approdo irrinunciabile per una nazione fieramente democratica come l’Inghilterra, si limitò ad apostrofarlo in pubblico dicendogli: «Pubblicatelo, e andatevene al diavolo!» Molta acqua è passata sotto i ponti del Tamigi e lo spettacolo che oggi ci viene offerto è assai più desolante: il News of The World, il giornale domenicale da 3 milioni di copie di proprietà del magnate dell’editoria Rupert Murdoch chiude i battenti, travolto dallo scandalo generato da una valanga di intercettazioni che non hanno risparmiato nessuno, dalle famiglie dei soldati britannici caduti in Afghanistan all’avvocato di Lady Diana, dalle attricette sulla cresta dell’onda a funzionari governativi e uomini d’affari, senza trascurare il riservato establishment britannico. Finisce così, nella polvere di una vergogna senza limiti, il giornale in lingua inglese più letto al mondo con i suoi quasi 3,5 milioni di copie vendute, con la prevedibile fuga degli inserzionisti pubblicitari e, vogliamo sperare, a questo punto anche dei lettori. Una mossa obbligata e assai poco onorevole, quella di Rupert Murdoch, grande tycoon della stampa mondiale, ora nella bufera, mentre la Camera dei Lord reclama la convocazione di una commissione parlamentare d’inchiesta. La vicenda, ben lungi da essere conclusa, ci riporta a una riflessione che non nasce certo oggi. Quella dei limiti che la carta stampata, il giornalismo d’inchiesta, la televisione, i new media debbono imparare a porsi.Domandandosi cioè se esista, se debba esistere – e noi crediamo che sia fortemente necessario – un fondale etico al quale fare riferimento quando si pubblica una notizia, soprattutto se la notizia proviene dal buco della serratura, com’era d’uso fare il domenicale di Murdoch e come sono usi fare migliaia di fogli scandalistici in tutto il mondo e – non di rado – anche giornali che scandalistici normalmente non sono, Italia inclusa, ovviamente. E non ci impressiona tanto la decisione del magnate australiano, il cui interesse primariamente economico è leggendario (si pensi alla calcolata disinvoltura con cui è passato dai laburisti ai conservatori, poi ancora a fianco di Blair, poi di nuovo con Cameron, usando alla bisogna i suoi giornali come manganelli mediatici), quanto la cattiva scuola che ha fatto sui suoi epigoni. Come quella Rebecca Brooks, un tempo semplice segretaria, poi ascesa ad astro del giornalismo d’assalto, ma soprattutto di quella perniciosa china che dal gossip porta alla diffamazione, allo sfregio, fino all’intrusione nella vita di ogni giorno, facendo strame del diritto sacrosanto alla riservatezza che ogni cittadino degno di questo nome deve poter avere. Mentre la High Court stende la lista dei giornalisti e dei manager che ora rischiano la prigione, noi ci limitiamo a domandarci: vale la pena di ripensare questa professione? Di restituirle una dignità che non significa in alcun modo censurare o nascondere le notizie, eludere o evitare di disturbare il potere, ma certo non si può pensare che la ragione sociale di una testata possa essere esclusivamente quella di spiare non visti l’intimità altrui. E non siamo sicuri che Wellington – fosse vivo oggi – si limiterebbe a mandare al diavolo il giornalista giustamente impertinente. Forse metterebbe mano alla sciabola. E persino con qualche ragione.