Opinioni

Gli uomini della notte e noi. Un bene più grande

Marina Corradi sabato 30 luglio 2011
Due attacchi contemporanei da due diverse direzioni, duecento manifestanti a volto coperto, spranghe, bombe carta, e sei feriti, alla fine, tra poliziotti e carabinieri. L’altra notte in val di Susa è stata battaglia, di nuovo: ma perfettamente organizzata, in una strategia studiata a tavolino. E oggi, in attesa di una nuova manifestazione popolare che si vuole, dicono gli organizzatori, pacifica, non si può non interrogarsi su qualcosa che cova dentro e tra il movimento di opposizione alla Tav.Perché c’è come un’area d’ombra sul dissenso attorno all’alta velocità. Da un lato il dissenso civile, ecologista, di una parte della popolazione; dall’altro, in una discontinuità brusca, l’azione paramilitare di gente con le pietre e le spranghe in mano. Ma dove attingono consenso e legittimità, in un territorio ben delimitato, quelli della notte, dei volti coperti, in val di Susa? Viene il sospetto che attorno al cantiere della alta velocità attecchisca un seme ambiguo, oscuro, che mescola pulsioni localiste e antipolitica in una insofferenza aspra; insofferenza che, pur di affermare un preteso diritto, tollera la violenza organizzata, anzi attendata, nel proprio territorio. Come se il confine della legittimità non fosse più chiaro; come se l’ansia di difendere una valle da un tunnel assurto a nemico assoluto offuscasse la memoria della democrazia e del diritto.La costruzione della linea veloce è stata approvata nelle sedi previste; tuttavia quel tunnel, sembra, è una faccenda per alcuni così intollerabile che non c’è istituzione o diritto che tenga. E allora, accanto al dissenso alla luce del sole, si allarga il dissenso degli uomini della notte, quelli con le pietre e il volto coperto, organizzati come un piccolo esercito; e questo sembra normale, tollerabile e, sinora, tollerato.Preoccupa, oltre ai prossimi esiti della guerriglia, proprio il fatto che non si percepisca l’abnormità di ciò che succede attorno a quei cantieri. Una piccola guerra – piccola, almeno, finché qualcuno non resti sul terreno – in difesa di una pretesa contro una decisione della collettività e dello Stato. Come se, dove la democrazia non dà l’esito sperato da una minoranza, fosse possibile tollerarne una supplenza armata. È un seme oscuro quello che cerca di germinare in Val Susa; la difesa oltranzista delle proprie ragioni e l’ideologizzazione dello scontro producono un accecamento che non può essere sottovalutato, in un Paese come è l’Italia di oggi, provata, usurata nei suoi assi portanti, persino nelle sue colonne istituzionali. Un Paese in cui in molti luoghi e in molte categorie si potrebbero rintracciare interessi particolari degni di una difesa altrettanto estrema che in Val Susa: dal Sud travagliato dalla guerra ai rifiuti agli agricoltori sardi, dai pendolari dei disastrati treni locali ai giovani precari e ai vecchi delle pensioni minime. Portatori tutti di degni, o anche sacrosanti interessi e diritti, spesso offesi. Ma cosa succederebbe se la difesa degli interessi arrivasse a generalizzarsi in una protesta come quella dei cantieri della Tav? C’è un bene più grande di ogni pur degno bene particolare, ed è un Paese dove non si combatte nelle strade o nei cantieri. Forse non è inutile ricordarlo in questi giorni di delegittimazioni della politica, di fanghi e vergogne che disaffezionano dalla democrazia, di default globali pendenti come spade di Damocle; in questi giorni di acque arruffate e torbide, ricordiamoci, a fronte dei nostri legittimi interessi, che c’è comunque un bene più grande, comune come l’aria che insieme respiriamo. Quella pace civile che non ci è garantita per sempre, in fondo, da nessuna legge: se non vi aderisce la nostra libertà interiore.