Opinioni

Scambio di beni. Economia della condivisione, il futuro è sempre più social

Emanuela Citterio martedì 8 novembre 2016

Il car sharing non lo è, anche se contiene la parola ' sharing', condivisione. Le piattaforme web che forniscono autista con conducente nemmeno. Da escludere sono anche i servizi che recapitano il cibo a casa su ordinazione tramite applicazioni. Dopo i primi anni di euforia, c’è chi prova a fare chiarezza intorno alla sharing economy, che ha bisogno più che mai di trovare la sua giusta collocazione rispetto a furbe operazioni di marketing e sopravvalutazioni. Negli ultimi tre anni la cosiddetta 'economia della condivisione' è cresciuta in tutto il mondo sia come fenomeno culturale e sociale che in termini di fatturato. Piattaforme on line e applicazioni hanno inaugurato un nuovo modo di spostarsi, di viaggiare e persino di lavorare. Oggi si può visitare una città in qualsiasi nazione del mondo affittando alla velocità di un clic una stanza o un appartamento messi a disposizione da un privato, scegliendo un’opzione diversa e spesso più conveniente rispetto al soggiorno in albergo; dall’altra parte, c’è chi in questo modo è riuscito a ottenere un reddito integrativo affittando per brevi periodi uno spazio non utilizzato.

Condividere i passaggi in auto con applicazioni come BlaBlaCar è diventato un modo economico per viaggiare per molte persone, giovani e non solo. Il moderno autostop. Ma i siti di sharing economy hanno anche favorito una nuova socialità: ci sono i portali di crowdfunding che permettono di unirsi per finanziare un progetto, quelli di social eating dove ci si trova per organizzare cene a partire da un interesse comune, siti come Time Republik dove le persone possono scambiare liberamente il proprio talento e le proprie competenze. E si potrebbe continuare: secondo l’ultima rilevazione curata da Collaboriamo.org, in Italia ci sono 186 piattaforme collaborative, divise in 13 diversi settori, dal crowdfunding (69), ai trasporti (22), al turismo (17, di cui 8 che mettono in contatto viaggiatori e guide locali che propongono una visita alternativa del territorio), passando per lo scambio di beni di consumo (18), i servizi alle persone (9), la cultura (9). Del futuro di questa nuova economia collaborativa si parlerà il 15 e 16 novembre a Milano a Sharitaly: due giorni di incontri, dibattiti e gruppi di lavoro dedicati al tema 'Impatto sharing'.

Ma cos’è davvero sharing economy e cosa invece non lo è? Ivana Pais, docente di sociologia economia dell’Università Cattolica di Milano, insieme a Marta Mainieri fondatrice del portale Collaboriamo.org, ha elaborato dei criteri. «Sul web fioriscono nuove aziende digitali e piattaforme che forniscono beni e servizi a pagamento e c’è bisogno di fare chiarezza» afferma Pais. «Non si tratta di dividere buoni e cattivi, ma di distinguere fra modelli diversi di integrazione fra economia e società». Delineare i contorni di un fenomeno nuovo, però, è tutt’altro che facile. «Possiamo dire che una piattaforma di sharing economy è davvero tale se c’è uno scambio di beni e servizi fra pari» continua Pais. «A dettare il prezzo dei beni e dei servizi offerti o scambiati, devono essere inoltre gli stessi utenti. Il principio è che deve trattarsi di una negoziazione fra pari, un gioco contrattuale tra le parti in campo e non diretto da organizzazioni esterne». Non c’entrano nulla con la sharing economy, di conseguenza, aziende che forniscono servizi on line a pagamento, dal car sharing all’affitto di auto con conducente al food delivery, ovvero la consegna a domicilio di cibo ordinato via web o con un’applicazione. Eppure la confusione è ancora tanta.

Lo scorso ottobre ha fatto scalpore il caso di Foodora, start up tedesca nata a Monaco nel 2014 che recapita cibo a domicilio a trenta minuti dall’ordine, effettuato attraverso il sito o l’apposita app. A consegnare sono ciclisti o motociclisti in giacca rosa che girano per la città con il proprio mezzo a due ruote. A Torino 140 di loro hanno denunciato condizioni inique: paga a cottimo di 2,70 euro a consegna, contratto di collaborazione co.co.co senza coperture per le malattie, utilizzo dei propri mezzi senza rimborso. La trattativa fra lavoratori e azienda è in corso, ma nel frattempo c’è chi ha parlato di «sogno infranto della sharing economy », accusando l’intero comparto di usare i linguaggi della condivisione e della sostenibilità per saltare a piè pari le regole e i diritti dei lavoratori. Proprio il caso di Foodora, dall’altra parte, ha obbligato i media a usare un linguaggio più preciso per definire le diverse forme di economia nate sul web. I più accurati, parlando della start-up tedesca, hanno usato il termine di ' gig economy' (economia dei piccoli lavoretti) o di ' on demand economy' (aziende digitali che forniscono beni e servizi ai consumatori attraverso il web).

Fare distinzione è importante anche per regolare tutta una serie di attività economiche nate sul web. Mettere dei paletti rigidi, però, è difficilissimo. Anche perché i tentativi per aggirarli ci sono, eccome. Di recente Federalberghi ha puntato il dito contro AirBnb, il portale on line che mette in contatto persone che cercano un alloggio o una camera per brevi periodi con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare. Ogni inserzionista ha un profilo personale. Ma è capitato che a una stessa persona, Bettina, siano riconducibili ben 366 appartamenti. Bettina è una dipendente della società immobiliare Halldis Italia, che ha sfruttato il sito di sharing economy per incrementare il suo business. Capita però anche il contrario: chi vuole avere tutte le carte in regola fatica a districarsi fra leggi e procedure, che in Italia variano di regione in regione e si stanno adattando a un fenomeno nuovo. Carlotta Bianchini ha creato il sito www.hostitaliani.it e un gruppo Facebook per rispondere ai dubbi di chi offre accoglienza tramite AirBnb: «Le domande più frequenti riguardano le tasse da pagare, se sia necessario o no far firmare un contratto, se si debba o meno rilasciare una ricevuta, quale sia la procedura per la registrazione della struttura presso la questura» afferma. «Quando ci si reca negli uffici comunali o regionali per avere informazioni capita di non ottenere informazioni univoche e spesso gli stessi funzionari non sono consapevoli delle normative vigenti».

Quella delle tasse è una questione in sospeso anche, e soprattutto, per le aziende che hanno creato le piattaforme. A livello internazionale, AirBnb ha continuato a crescere, ricevendo costantemente nuovi round di finanziamento, fino ad essere quotata 24 miliardi, eppure in Italia paga solo 46 mila euro di tasse perché la sede legale del gruppo è in Irlanda. C’è però una grossa differenza fra le piattaforme nate in questi anni negli Usa, come AirBnb, e quelle italiane. «Quelle americane sono state pesantemente finanziate da fondi di venture capital e, se questo ha portato al loro successo, dall’altra parte ha drogato la crescita dell’economia della condivisione via web creando distorsioni» fa notare Marta Mainieri, fondatrice del portale Collaboriamo.org dedicato alla sharing economy italiana. «In Italia i capitali investiti sono inferiori ma c’è il problema opposto: le piattaforme collaborative non riescono a decollare e a professionalizzarsi». L’impatto della sharing economy in Italia è quindi stato sopravvalutato? «In un momento di crisi questo tipo di economia collaborativa ha fatto da paracadute – afferma Pais –. In un auspicato scenario di ripresa potrebbe o non servire più o professionalizzarsi, diventando, più che la panacea di tutti i mali, un’opzione possibile per persone interessate alla dimensione sociale e alla sostenibilità ambientale nello scambio di beni e servizi». Tra distorsioni, furbe operazioni di marketing e letture che l’hanno presentata come la soluzione alla crisi, l’economia della condivisione sta insomma ancora cercando la sua strada.