Opinioni

Comunità ferita. Ebrei francesi, dopo la marcia restano paura e disillusione

Giorgio Ferrari martedì 13 gennaio 2015
Danielle scruta il suo palmare nel denso silenzio davanti alla Sinagoga de la Victoire. Il suo gesto provoca qualche sguardo di riprovazione. Ci sono almeno cinquemila persone assiepate domenica pomeriggio fuori dal tempio, ma la speranza di assistere alla cerimonia religiosa è vana: il gran rabbino di Francia Haim Korsia ha appena accolto nella grande sinagoga il presidente Hollande e il premier israeliano Netanyahu, il dolore e la commozione si stendono sulla folla muta come un manto consolatorio. Ma Danielle continua a interrogare il suo palmare. E questo m’incuriosisce. Che cosa stai cercando? «Sto contandoli – dice –. Guarda qui: ci sono già ventiduemilacinquecentoquaranta retweet sull’hashtag #jesuisKouachi...». Tradotto dal linguaggio tecnico, oltre 25mila simpatizzanti del due fratelli terroristi hanno manifestato la loro adesione su twitter. «Com’è possibile vivere in un Paese dove migliaia di persone approvano la strage di Charlie Hebdo e ancora di più quella mercato kasher?».  La Francia è traumatizzata e la comunità ebraica lo è ancora di più. E non basta che il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve abbia assicurato che almeno cinquemila tra agenti e soldati verranno dislocati in tutto il Paese per proteggere le 700 scuole ebraiche. E nemmeno basta la nomina di Patrice Latron, che negli anni Novanta fu aiutante di campo militare dei Primi ministri Edouard Balladur e Alain Juppé, a prefetto incaricato di coordinare le misure di sicurezza per la protezione dei siti della comunità ebraica. Non basta perché essenza profonda degli ebrei è la memoria. E la memoria rimanda a mille fatti sanguinosi del passato, sui quali svetta tragico l’assalto a Tolosa della scuola ebraica del 19 marzo 2012 da parte del 23enne franco-algerino Mohammed Merah. Vi furono quattro vittime, fra cui tre bambini. Due giorni fa si è scoperto che Amedy Coulibaly, l’autore del massacro di 4 ebrei nel negozio kasher di Porte des Vincennes, puntava a compiere una carneficina in un asilo ebraico. «Nei secoli siamo stati molto odiati – dice il presidente della Concistoro Israelita francese Joel Merguy – ma non abbiamo mai imparato a odiare. La paura non deve prendere il sopravvento: se degli ebrei francesi decideranno di emigrare in Israele non lo faranno spinti dalla paura».   Sono parole obbligate, necessarie. Ma che cozzano con la realtà di tenebra che lentamente avvolge il cuore di molti ebrei francesi. «In certe scuole abbiamo dovuto ritirare i nostri ragazzi – dice Bertrand, intirizzito come tutti noi davanti alla sinagoga – perché gli insulti, le intimidazioni e le piccole violenze da parte dei musulmani erano all’ordine del giorno». Un giovane islamico, dico, Lassan Bathily, ha salvato molte vite nel supermercato kasher... «È vero. Non stiamo parlando di tutto l’islam, ma di quello estremista». Sono le stesse parole che Netanyahu ha appena pronunciato dentro la sinagoga: «Israele è casa vostra, chi vuole venire è sempre benvenuto. Il nostro nemico è l’islam radicale, non quello normale». Quella di domenica è stata una giornata diplomaticamente complicata per il premier israeliano.  Hollande aveva sconsigliato a Netanyahu di partecipare e così pure al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Nessuno dei due ha ceduto. Alla fine si sono trovati gomito a gomito: il premier che non cede finché Hamas non riconoscerà Israele e l’anziano presidente di Fatah, un avversario con il quale sarà difficilissimo giungere a un compromesso, soprattutto dopo che la Palestina ha ufficialmente aderito alla Corte penale internazionale. Così ironizza lo scrittore Abraham Yeoshua: «Sarei impressionato se invece di camminare insieme si sedessero intorno a un tavolo per cercare di negoziare seriamente».   Torno da Danielle. Mi mostra il palmare: «Siamo a oltre 26 mila... Quanti fra questi saranno disposti a prendere le armi per uccidere ebrei e anche cristiani?». Nessuno lo sa. Nel giorno della grande marcia repubblicana c’è ampio spazio per il dolore, la riflessione, il recupero del senso delle cose. Dice Netanyahu: «Israele sostiene l’Europa nella sua lotta al terrorismo. È arrivato il tempo che l’Europa sostenga Israele nella stessa identica battaglia». Prima di lasciare Parigi Netanyahu ha voluto visitare il supermercato della strage. Le quattro vittime, ha fatto sapere, verranno tumulate domani a Gerusalemme. «Tornano a casa», dice il Gran Rabbino.  Ma tutti sanno che dietro queste parole c’è un profondo senso di disillusione. Un numero consistente dei seicentomila ebrei di Francia ha lasciato o sta lasciando il Paese. Non tutti andranno in Israele. Un sondaggio condotto dalla Siona, l’organizzazione degli ebrei francesi sefarditi rivela che il 74% degli interpellati sta pensando seriamente di lasciare la Francia. E tu Danielle, cosa farai? «Mi vergogno ad aver paura. Ma ce l’ho. Non per me, per i miei familiari, mia madre, i miei nonni. Vorrei capire a volte da dove viene tutto questo odio. Ma credo si perda nella notte dei tempi». «È l’educazione l’arma più terribile dell’islam radicale e dei jihadisti – dice Patrick Bernal, professore alla terza università –: le scuole finanziate dai wahabiti puntano sui giovanissimi. Conquista il loro cuore e non avrai bisogno di un esercito. Che cosa faremo fra vent’anni, quando l’esercito, la polizia, i gangli chiave della società apriranno le porte a questi giovani che hanno imparato l’odio per l’Occidente?» Sono domande tragiche e non prive – al di là qualche catastrofismo – di verosimiglianza.  La caccia ai complici dei fratelli Kouchi e di Amedy Coulibaly prosegue. Il premier Valls è certo che il quartetto (i tre terroristi uccisi più Hayat Boumedienne, fuggita in Turchia e poi in Siria il 2 gennaio) fosse spalleggiato da qualche complice. E assicura che oltre alle sinagoghe e alle scuole ebraiche la sorveglianza verrà estesa anche alle moschee, «perché, contro queste ultime, nei giorni scorsi si sono registrati alcuni attacchi».  Tirava un vento gelido ieri su Parigi. La grande marcia repubblicana si era conclusa, le parole nobili e altisonanti erano state spese, l’orgoglio e la speranza di chi è ancora disposto a difendere la libertà e la democrazia ancora in qualche modo presenti nell’aria. I negozi del Marais sollevano le serrande. I commercianti ebrei non vogliono cedere alla paura. Sul frontone della grande sinagoga c’è una frase della Genesi: «Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!».