Opinioni

La questione del «risparmio», ma non solo. E se per una volta prendessimo il referendarismo per le corna?

Marco Tarquinio venerdì 17 aprile 2009
Non siamo ancora riusciti a capire quanto costerà fissare la data del prossimo referendum elettorale in giornate diverse da quelle in cui voteremo per il Parlamento europeo e per una nutrita serie di amministrazioni locali. C’è chi (come i promotori della consultazione) parla di 400 o, almeno, di 313 milioni di euro. E chi invece (come il ministro dell’Interno) ipotizza non più di 173 milioni. C’è, infine, chi rifà i calcoli e conclude che non si supererebbero i 50 milioni. Differenze non da poco, ma che alla fin fine non toccano il cuore della questione. È possibile che si 'buttino via' così dei soldi pubblici? Ed è concepibile che lo si faccia in un momento in cui, sotto il cielo plumbeo di una pesante crisi economica e nell’incalzare dell’emergenza­terremoto in Abruzzo, l’imperativo è quello di mettere bene a frutto ogni risorsa disponibile? Crediamo che la risposta sia semplicemente 'no'. Non è possibile né concepibile, e non sarebbe giusto. Restano poche ore per decidere. E molto – a cominciare dalle parole spese ieri dal presidente del Consiglio, che ha addirittura ammesso il rischio di una «crisi di governo» a causa del veto anti­referendario della Lega – induce a ritenere che non ci sia spazio per ripensamenti che conducano, il 6 e il 7 giugno, all’indizione di un grande «election day». Eppure, mentre tra gli stessi promotori dei referendum c’è chi sembra accorgersi dei costi della spericolata strategia seguita, non ci sembra fuori luogo chiedere alle forze di maggioranza un’ulteriore riflessione sulla questione e a tutti i partiti, nessuno escluso, un’assunzione di responsabilità. Da osservatori sempre meno convinti dell’utilità dell’operazione condotta dagli ideatori dei tre quesiti sull’attuale legge elettorale ci sembra, infatti, opportuno che si valuti l’ipotesi di trattare i cittadini-elettori da interlocutori a tutto tondo. Perché, vista l’emergenza davvero eccezionale in cui siamo immersi, non si va a un effettivo «election day» che, per una volta, metta insieme europee, amministrative e referendum? E perché non lo si fa spiegando con chiarezza agli italiani il motivo per cui sarebbe bene bocciare quest’ultima consultazione, rifiutando in massa le schede referendarie? Prendendo certo referendarismo per le corna, si possono ottenere due risultati. Da un lato, si recupererà comunque un gruzzolo aggiuntivo da investire nella ricostruzione dell’Abruzzo terremotato. Dall’altro – e su questo dovremo dilungarci un poco – si contribuirà all’archiviazione della vecchia e pericolosa illusione (coltivata in circoli tanto ristretti quanto lontani dall’elettorato reale) di far nascere il «nuovo» in politica usando l’ascia referendaria come rude forcipe. Ne sono state dette tante, in questi giorni. Si è arrivati persino a sostenere che l’obiettivo del referendum sarebbe quello di ridare piena possibilità di scelta ai cittadini-elettori nel processo elettorale. Non è affatto così, purtroppo. I tre quesiti non puntano a ridarci almeno il potere di esprimere la nostra preferenza per un deputato o un senatore, puntano ad altro. Vogliono, soprattutto, chiudere l’epoca delle coalizioni e cancellare la «cultura» (seppur via via meno raffinata ) che dalla nascita della Repubblica ai giorni nostri le ha rese possibili. E vogliono farlo trasferendo definitivamente il premio di maggioranza dall’alleanza più votata al partito più forte. Hanno, insomma, l’ambizione di dare all’Italia un sistema non più bipolare, ma tendenzialmente bipartitico e, comunque, basato su tre-quattro partiti solitari. Una semplificazione ancora più radicale di quella avviata con la riforma delle opzioni e dei comportamenti politici che, alle ultime elezioni, ha prodotto il duello tra le mini-coalizioni Pdl­Lega Nord e Pd-Italia dei valori e l’azzeramento parlamentare di tutte le altre forze, a eccezione dei centristi dell’Udc. L’obiettivo dei referendari è suggestivo, e assai rischioso. Minaccia di dare il via non a una positiva valanga riformatrice, ma a una slavina destrutturatrice. Viene perseguito – a Costituzione invariata – all’interno di un sistema istituzionale che negli gli ultimi quindici anni è stato parzialmente manomesso, e che con l’avvento di un’inedita stagione di egemonie monocolori subirebbe un’altra durissima prova. La minoranza di volta in volta più cospicua verrebbe messa nella condizione di esprimere il governo del Paese, di dettare le leggi, di stabilire le regole delle assemblee legislative e di designare le più alte cariche di garanzia, a cominciare dal presidente della Repubblica... Oggi, è evidente, un simile strapotere toccherebbe al Pdl (e colpisce che il partito del premier Berlusconi sia stato bersagliato di critiche per aver osteggiato, in nome di una logica di coalizione, il referendum invece di cavalcarlo). Domani, forse, ad altre formazioni magari in grado di rappresentare a malapena un terzo o, addirittura, un quarto dell’elettorato. Di questa prospettiva, di quelle schede, meglio fare a meno. Fateci andare alle urne una volta sola, e fateci dire: «Il referendum elettorale? No, grazie».