Opinioni

Rivoluzione possibile per disabili e famiglie. «Dopo di noi»: l’impegno atteso

di Roberta d'Angelo mercoledì 15 giugno 2016
Lo Stato che sborsa soldi, in questo periodo di cinghie strette, è un segnale. Lo Stato che apre il portafoglio per i disabili gravi è un bel segnale. Lo Stato che mette nero su bianco che per loro servono risposte 'individuali' si può considerare il segnale di una rivoluzione possibile. Certo, una legge appena approvata è solo una serie di norme, e per cantare vittoria bisogna vederla applicata. Lo sanno bene gli italiani. E però accade che con la legge per il Dopo di noi per la prima volta si guarda alla persona 'diversa' come a una persona e non a un malato. Non semplicemente 'titolare' di diritti – fondamentali, sì, eppure spesso non facilmente esigibili – e di doveri, ma innanzi tutto 'persona'.  A pochi giorni dal Giubileo dei malati e dei disabili in cui papa Francesco ha toccato il cuore di un dramma che soltanto le famiglie dei disabili e i disabili stessi conoscono, il Parlamento mette un tassello nell’ordinamento italiano dedicato esclusivamente alle persone con gravi difficoltà mentali. Quelle che nel momento in cui si troveranno senza i genitori, o con i fratelli che annaspano nella difficile gestione del quotidiano, sono destinate a rimanere sole. E per le quali la risposta non può essere per lo più sanitaria. Perché un ricovero in una struttura medica non si augura a nessuno. Può essere necessario, ma deve essere un passaggio, ove necessario. Ecco allora che il disabile comincia ad assumere contorni umani, per quanto per molti sgradevoli (come ricorda il Papa «nell’epoca in cui una certa cura del corpo è divenuta mito di massa e dunque affare economico, ciò che è imperfetto deve essere oscurato, perché attenta alla felicità e alla serenità dei privilegiati e mette in crisi il modello dominante»). E che, come tutti gli umani, il disabile ha bisogno di una famiglia, di una rete di rapporti, di sentirsi parte del mondo che lo circonda. Di sentirsi utile, spesso, anche nella gravità della sua condizione. Perché parte di un universo la cui armonia spesso è bombardata dall’egoismo, che strumentalizza la natura. E perché di questa natura partecipano tutti gli uomini, con i loro pregi e i loro difetti, che sempre più difficilmente si riescono ad accettare. Chi dunque risulta, per gli altri, più 'difettoso' è proprio colui per il quale spesso la famiglia ha cambiato stile di vita, è colui che è stato messo al centro del mondo da genitori che hanno modificato aspirazioni, sogni e abitudini per accudirlo, per aiutarlo, per dare un senso alla sua esistenza. Anche quando il senso non si trova. Perché l’umanità del figlio disabile è sempre lì a interrogare chi ci vive a fianco. È sempre lì a stupire, a limitare, a 'occupare' l’esistenza. Il disabile è ingombrante. Nel bene e nel male. Tanto dolore per tanta soddisfazione. Tanto amore per tanto sconforto. Tanta solitudine per poca solidarietà. Prevedere, dunque, come fa la legge un rapporto di mutuo soccorso, un sistema di sussidiarietà, la possibilità di gestire il futuro del disabile per il periodo in cui la famiglia verrà a mancare, dove possibile con il consenso del diretto interessato, è un sospiro di sollievo per molti genitori. E dovrebbe esserlo anche per la società, spesso ignara o colpevolmente assente. Disposta a spendere e spesso a speculare sulle esigenze dei disabili, facendo di questi dei numeri da incasellare, ma da non guardare mai in faccia. Eccola, speriamo, la svolta. Ecco la possibilità per i più gravi di essere inseriti in case famiglia (o, se ne hanno la possibilità, anche di essere lasciati nel loro ambiente di sempre). Individui, persone, con un volto. Per le quali la legge prende in considerazione anche la fase di passaggio, quella in cui le famiglie, che anni di cure hanno segnato nel fisico, nello spirito e nelle tasche, possono cominciare a inserire il disabile in strutture accoglienti, capaci di ricreare quel calore familiare e dare una 'normalità' a chi con le sue differenze e i suoi limiti può fare il passo che tutti i figli fanno prima o poi: andare a vivere lontano da mamma e papà, ma con mamma e papà sempre presenti, magari con maggiori energie, alleviati dal peso insopportabile (e finora negato solo sulla carta) della solitudine.