Opinioni

Sarà beato il parroco di Palermo martirizzato dai mafiosi. Don Pino prete vero

Giuseppe Savagnone venerdì 29 giugno 2012
La notizia che padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dician­nove anni fa dalla mafia, sarà proclama­to beato, non è soltanto un motivo di grande gioia per tutto il popolo cristia­no, in particolare per quello siciliano, ma acquista un profondo significato teolo­gico e pastorale, che vale la pena di sot­tolineare. Tra quanti auspicavano la beatificazio­ne del sacerdote siciliano, ve n’erano di coloro che vedevano in lui soltanto un e­roico operatore sociale e un instancabi­le paladino della legalità, prescindendo dalla prospettiva specificamente reli­giosa del suo ministero sacerdotale. Nel­la loro ottica, don Pino sarebbe stato un esempio di come la Chiesa possa ren­dersi benemerita accantonando o co­munque mettendo in secondo piano il suo annuncio di una verità salvifica – fonte, ai loro occhi, di intolleranza e di di­visioni –, per svolgere invece un servizio umanitario in cui tutti possono ricono­scersi. Sarebbe stata questa battaglia sol­tanto umana a determinare la sua mor­te. Riconoscendo che il martirio di don Pu­glisi è avvenuto in odium fidei, in odio al­la fede, la Congregazione per le cause dei santi ha messo in luce l’unilateralità di questa lettura della figura e dell’opera del prete di Brancaccio. Ciò che egli ha detto e fatto, ciò per cui è morto, non è mai stato altro che il Vangelo. Per questo è stato ucciso, proprio lui, che non era affatto il classico «prete anti-ma­fia » e che perciò non a­veva scorta e non veni­va considerato da nes­suno «in prima linea». Invece lo era, proprio perché svolgeva in tutta la sua pregnanza e il suo significato il proprio mi­nistero di presbitero. E­gli viveva la sua missio­ne al servizio dei più e­marginati, dei più debo­li, di tutti coloro che non hanno voce, non «seb­bene » fosse prete, o «accanto» al suo es­sere prete, ma 'perché' prete, in nome di quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini e povero tra i poveri, ha reso sa­cra la fragilità umana. E per questo – perché attingeva alle ri­sorse spirituali del Vangelo – l’attività di don Pino è apparsa ai mafiosi più temi­bile di tutte le battaglie per la legalità e per il progresso civile condotte da tanti, pur ammirevoli, promotori del bene co­mune e della giustizia. Uccidendolo, i mafiosi hanno in qual­che modo evidenziato l’equivoco in cui spesso sono caduti gli studiosi di Cosa nostra. Fondandosi su alcuni ritualismi e su altre somiglianze formali, essi l’han­no considerata come l’espressione di u­na forma di religiosità, sia pure distorta e criticabile dal punto di vista morale. La mafia, in realtà, col suo culto del potere per il potere, col suo rifiuto di ogni limi­te alla violenza, è una idolatria del nulla che si pone non come una deviazione e­tica, ma come la più radicale negazione di Dio. La sua opposizione al cristiane­simo non è di ordine morale, ma teolo­gico. E in quest’ottica essa ha ucciso non un difensore della legalità, non un ser­vitore dello Stato, ma un sacerdote che incarnava nella sua vita e nella sua ope­ra l’irresistibile forza salvifica del Vange­lo. Con la sua dichiarazione che don Pugli­si è stato ucciso «in odio alla fede», la Chiesa ha smascherato il falso dualismo tra impegno per Dio e impegno per gli uomini e additato un modello di pasto­re che, per amore del primo, porta agli al­tri la salvezza uscendo dal recinto del tempio e di un ritualismo autoreferen­ziale, immergendosi nella concretezza di una data storia e di una data società. Come ha fatto don Pino Puglisi, attiran­dosi l’implacabile ostilità di tutti coloro che, odiando Dio, odiano anche l’uomo.