Opinioni

Dopo Covid. Donne decisive per un nuovo modello di sviluppo umano

Elisa Manna giovedì 16 luglio 2020

A volte anche una trasmissione televisiva può farci fare un passo avanti nella consapevolezza rispetto alla nostra identità e nostra cultura. Nello speciale dedicato da Lilly Gruber al tema della rappresentazione della donna nei media (proposto a conclusione del ciclo di quest’anno della trasmissione '8 e mezzo' che conduce su La7) è stata rilanciata una questione che, probabilmente molti considerano marginale, protofemminista, irrilevante. Sbagliando. Il tema posto è questo: come fa una cultura, una società che rappresenta la donna e dunque 'pensa alla donna' nel cinema, in tv, su internet (e perciò nell’immaginario collettivo) come elemento decorativo (per usare un eufemismo) a riconoscerle competenza, autorevolezza, capacità di leadership nella realtà? E come siamo arrivati a questo tipo di immagine riduttiva, parziale, quando non dichiaratamente offensiva?

Già perché se è vero che ci sono donne che accettano di figurare in tal modo (questione vecchia come il mondo) è pur vero che una vasta platea femminile non si riconosce affatto in tale rappresentazione sentendosi indignata e impotente di fronte a una immagine del femminino così misera e oggettificata. Il programma tv citato ha avuto il merito di non ricondurre semplicisticamente la spiegazione a un paradigma culturale patriarcale (operazione prevedibile), ma di cercare e ' stanare' anche spiegazioni meno scontate: come quando si ricorda che la presenza femminile tra registe e sceneggiatrici nell’industria di Hollywood dell’inizio del secolo scorso, molto ricca e numerosa, fu spazzata via dalla commistione con il mondo prettamente maschile della finanza, resa necessaria dall’avvento del sonoro e dalla conseguente necessità di ingenti finanziamenti per la crescita degli studios. Con la conseguenza che lo 'sguardo' femminile sul mondo venne completamente oscurato. Gli uomini che decidevano nelle banche non si fidavano di puntare su un ingegno femminile: e in questo caso sì, certamente, un modello culturale fondamentalmente maschile ha avuto il suo peso.

Altra annotazione interessante, che evidenzia che 'tout se tient', come dicono i nostri cugini francesi: gli agenti che prendono una percentuale sul cachet dei divi, tendono a promuovere attori uomini che hanno guadagni più alti, piuttosto che attrici. E questo influenza il ruolo, il riconoscimento e lo status di protagonista degli uomini piuttosto delle donne nei film. Quello che invece convince meno nella lunga inchiesta che ha completato lo speciale sono le interviste a esperte americane che pongono la questione in termini di potere: la conquista del potere decisionale, dei ruoli di comando da parte delle donne. Messa in questi termini la questione appare inutilmente divisiva e francamente distante da una sensibilità diffusa nel nostro Paese: forse anche perché, contrariamente a quanto avviene negli Stati Uniti, in Italia è ancora forte la voglia di 'fare famiglia', di fare coppia, di avere figli, di costruire una vita con l’uomo e non contro.

Se i giovani si sposano sempre più tardi non è certo perché non desiderino costruire una vita affettiva solida, ma piuttosto per le condizioni economiche, lavorative e di carenza di supporto alla vita familiare che purtroppo caratterizzano il nostro Paese da moltissimi anni. Ancora minoritaria è la singleness per scelta. Molto più efficace nel corso dello speciale è apparsa l’intervista alla grande attrice Meryl Streep (protagonista di ruoli memorabili e di grande spessore) quando sorridendo esclama: «Servono uomini solidali accanto a noi, questa è la cavalleria del XXI secolo!». Un modo grazioso per dire che la 'visione' delle donne (antropologicamente una maternità 'di testa' nei confronti dell’intero pianeta) ha bisogno del sostegno, dell’amicizia e della stima di uomini sensibili e intelligenti che vogliano aiutarle a fare il bene della società.

Perché la donna è costitutivamente madre, orientata a proteggere la fragilità, a schierarsi dalla parte dei deboli, a sentire empatia nei confronti di chi soffre ed è lasciato indietro. Ora che gli scenari mondiali, dopo il flagello del Covid, chiedono nuove visioni, nuove intelligenze, nuove sensibilità, dare spazio al «genio femminile» per dirla con san Giovanni Paolo II appare come una scommessa praticabile e auspicabile, nell’interesse non solo delle donne, ma dell’intera collettività .

E guardare ai problemi del mondo con la 'tenerezza' che è propria delle donne (come ci invita a fare papa Francesco) è forse la più grande e profonda rivoluzione benefica che si possa promuovere nel mondo: tenerezza nei confronti di tutti ,perché tutti hanno le loro fragilità, le loro debolezze, le loro incertezze, le loro povertà. E tutti hanno bisogno di condivisione, di ascolto, di affettività. Di una vita più armoniosa.

Lo sanno bene i volontari e gli operatori delle Caritas che incontrano povertà di tutti i generi e sempre si confrontano con il bisogno di relazione umana che accomuna le persone più diverse (dal bambino non accompagnato al carcerato, dalla vittima di tratta al senza dimora). Il bisogno di incontrare due occhi che ci guardano con gentilezza appartiene a tutti noi, appartiene alla specie umana; forse perché non riusciamo mai a dimenticare, nel corso della nostra vita, il sorriso luminoso e innamorato negli occhi di nostra madre.