Opinioni

Il made in Italy che funziona, oltre i luoghi comuni. I distretti industriali felici di smentirvi

Paolo Preti mercoledì 25 febbraio 2015
Difficilmente mi è capitato di trovare, in una presentazione di dati riguardanti l’economia reale, così tante smentite ai più diffusi luoghi comuni in argomento come in quella fatta da Gregorio De Felice di Intesa San Paolo nella periodica analisi sui distretti italiani. La più importante tra le smentite riguarda la stessa vitale presenza di questa peculiare forma di collaborazione interaziendale: i distretti, dati più volte per superati se non proprio finiti, continuano a macinare risultati positivi, tanto da segnare un aumento delle esportazioni del 3,5%, superiore di oltre il 70% al +2,1% del manifatturiero tedesco nel suo insieme. E ciò non solo negli storici settori del made in Italy – peraltro abbondantemente rappresentati nella classifica dei primi quindici distretti – considerato che al primo posto si trova il «polo della gomma» nel Sebino bergamasco, mentre ben posizionati sono anche tre distretti tecnologici come quello aeronautico, quello farmaceutico e quello biomedicale. Si potrebbe concludere che ciò di cui le nostre imprese distrettuali, tipicamente di piccola e media dimensione, si occupano, riescono a farlo bene, indipendentemente dal settore e dal grado di innovazione richiesto dai mercati. Dunque imprese capaci di esportare e di produrre novità trovando clienti in grado di apprezzare e valorizzare questo loro lavoro. Ma le smentite non finiscono qui: vengono segnalati aumenti dei livelli di patrimonializzazione delle aziende interessate superiori al 10% nel quinquennio di crisi che va dal 2008 al 2013, rientro nei confini nazionali di un tasso crescente di attività, fino a ieri de localizzate, sostituendo il perseguimento della qualità del prodotto alla ricerca del minor costo produttivo. Alzi la mano, al contrario, chi non si è sentito ripetere anche recentemente la litania della scarsa patrimonializzazione delle nostre imprese e della bassa tenuta del nostro sistema manifatturiero a causa della ridotta capacità innovativa e dell’insufficiente investimento in capitale umano.Quasi mai la realtà è fatta di bianco e nero, anche in economia prevale il grigio, più o meno scuro. Così come alcuni dati positivi dei primi mesi dell’anno non possono, non devono farci gridare alla ripresa ormai avviata a sicuro compimento, nemmeno questi importanti dati relativi ai distretti devono nascondere l’altra faccia della medaglia rappresentata, per esempio, dalla scomparsa in questi anni di crisi di ben un’impresa su cinque tra quelle più piccole, intorno al milione di euro di fatturato, anche nelle economie distrettuali. Ma, appunto, si tratta di un’altra faccia della stessa medaglia: tra le nostre imprese non ci sono carenze strutturali, deficit congeniti, limiti insuperabili. Al contrario, molte sono le risorse disponibili e le capacità per attivarle con creatività, in alcuni campi addirittura superiori a quelle dei nostri diretti concorrenti. Questi come altri dati ci dicono che siamo tuttora in gara, che la competizione può essere vinta, ma che dobbiamo parteciparvi con le modalità a noi più consone, per esempio i distretti, puntando sull’originalità della nostra presenza e seguendo l’esempio delle imprese migliori. Cose da cambiare, forse più precisamente da migliorare, dentro e fuori i distretti ce ne sono sicuramente molte: logistica, distribuzione, servizio, marchio e immaterialità sono aree su cui concentrare gli sforzi da subito. Ma solo per perfezionare un motore che non va assolutamente cambiato.