Opinioni

A 20 anni dal G8 di Genova. Difendere l'ordine è custodire il miracolo della democrazia

Maurizio Fiasco martedì 20 luglio 2021

A vent’anni dal G8 di Genova, è amaro constatare che le correzioni nella conduzione in alcuni apparati dello Stato sono ancora scarse. Le vicende del carcere di Caserta, infatti, possono accostarsi a diversi altri episodi traumatici che si dipanano nei quattro lustri passati. Sono impegnato da molto tempo nella formazione di quadri e funzionari delle forze di polizia statali e di quelle locali.

E vorrei condividere alcune delle riflessioni che ho maturato. In quei giorni di fine luglio 2001 ci fu il primo impatto con l’ordine pubblico anche per i giovani commissari della Polizia di Stato che avevano concluso, da poche settimane, il 91° corso. Quattro classi che avevo seguito e che presentavano una particolarità: due su tre allievi erano donne, vincitrici del concorso. Risultavano ai primi posti tra i quasi duecento selezionati: ragazze e ragazzi (posso permettermi di chiamarli così) non solo preparati, ma anche animati da un sentimento profondo della dignità della funzione che stavano per assolvere. Di ritorno da Genova, alcuni e alcune di loro, provati e addolorati da quella esperienza, conversarono con me e con altri loro ex insegnanti. Mi limitai (si possono immaginare i miei pensieri) a suggerire, quale medicina per guarire dal trauma, di compiere un’analisi obiettiva, quanto più possibile tecnica e lucida. Via maestra per cercare, come sempre si dovrebbe, la soluzione nascosta dietro il problema, sconvolgente che fosse stata la prova.

La democrazia ha convertito le 'istituzioni totali' (e la Polizia, in origine, questo era) in 'strumenti di garanzia' della legalità e dei diritti. Ma allora, cosa mancava e cosa ancora non c’è, affinché quanto sancito, per l’appunto, nella Costituzione si realizzi sempre compiutamente? È chiaro che se si attenua (talvolta fino a eclissarsi) tale attribuzione, pilastro dello Stato di diritto, le organizzazioni strutturate speciali evolvono spontaneamente in peggio: dapprima all’insegna dell’ottusità, ponendosi come scopo di se stesse, in crassa autoreferenzialità; poi come totalità che schiaccia la voce della coscienza e della diretta responsabilità sia dei singoli sia della cosiddetta catena di comando. Si mani-festa, insomma, quel 'potere della situazione' che volge in demoni anche persone in tutto normali. Phil Zimbardo lo chiamò «Effetto Lucifero», già nei primi anni Settanta del Novecento.

All’università californiana di Stanford, l’insigne psicologo condusse una simulazione di crudo realismo e scientificamente perfetta, che dimostrò, quando si è in un’organizzazione di potere coercitivo, l’inclinazione ricorrente a obbedire a ogni ordine, anche a quello più disumano. Nell’esperimento risultò che solo pochissimi volontari, reclutati per fungere da carcerieri, si rifiutarono di obbedire agli ordini impartiti loro dalla direzione che li spingeva a infliggere violenze ad altri volontari, a loro volta reclutati per il ruolo di prigionieri. Zimbardo ci consegnò due concetti particolarmente veri: il 'potere della situazione' e il 'conformismo nel gruppo' dove la personalità del singolo va in sonno.

Ne deriva una forma temporanea di alienazione, di spegnimento della voce della coscienza. Ed è un pericolo mortale costante per la società. Vent’anni fa a Genova si ebbe una tipica deviazione voluta dall’alto, che innescò anche violenze di uomini e donne in divisa, persone oneste, morigerate, padri e madri di famiglia, ma precipitate nell’inferno a emulare il diavolo. L’Effetto Lucifero individuato dal professor Zimbardo. Che presumibilmente si è replicato nelle carceri, nei giorni del panico per la prima ondata del Covid-19. Sono ancora troppi i casi che rivelano una poco sentita cultura del servizio, e una prevalenza del fascino del potere arrogante. La tendenza immanente a regredire a istituzioni totali si presenta nella storia e nel presente se la politica smette di esercitare – con disciplina e con onore – la funzione alta di indirizzare e di far dirigere, secondo l’etica e la responsabilità del servizio, caserme, carceri, esercito e, perché no, residenze per anziani, ospedali generici e sezioni psichiatriche. In sostanza è un vuoto di indirizzi che dissolve la dignità della funzione, facendo smarrire che è il cittadino, la persona che costituisce il popolo sovrano, lo scopo dell’agire dell’amministrazione.

La Polizia, la Giustizia, l’esecuzione penitenziaria sono al punto di convergenza tra il mandato dell’ordinamento costituzionale e il concreto agire delle organizzazioni pubbliche. E qui sta il discrimine: la democrazia ha trasformato i corpi di polizia da braccio violento del potere in presidio a garanzia delle libertà civili e politiche. Però, quanti segnali sbagliati si sono avuti: ronde, feticismo delle maniere forti, ostilità verso stranieri e naufraghi, slogan sommari e spesso associati a esibizioni di retorica politica. Torniamo al punto. Se non vi è un’efficace, illuminata direzione – tanto politica quanto amministrativa – prende piede una sorta di autogestione degli apparati. L’azione del personale regredisce e finisce cancellato il miracolo che la democrazia ha compiuto. La vigilanza perché ciò non accada spetta in primo luogo alla direzione politica, ma insieme e accanto all’opinione pubblica.