Opinioni

3 giugno 2017, 8 vittime. Youssef terrorista a Londra, la madre: Dio non mi ha lasciata

Giorgio Paolucci sabato 2 giugno 2018

Valeria Cadija Collina

Il 3 giugno dell’anno scorso otto persone venivano uccise a Londra in un attentato terroristico rivendicato dal Daesh. Uno dei tre autori del gesto, poi uccisi dalla polizia londinese, era Youssef Zaghba, 22 anni, padre marocchino e madre italiana, Valeria Kadija Collina. La incontriamo un anno dopo averla conosciuta, nella sua casa di Fagnano sulle colline di Bologna, dove vive da sola, ed è impossibile non avvertire un contraccolpo ascoltando ciò che le è accaduto dopo quel tragico giorno: da un grande dolore è misteriosamente nato qualcosa di positivo, da un seme macerato dentro un’indicibile sofferenza si sono generati germogli di vita che non cancellano il male compiuto, ma dicono che il male non è l’ultima e definitiva parola sull’esistenza.

LA GRANDE ASSENZA.

È una ferita che continua a sanguinare, e che forse non si potrà mai rimarginare, quella che porta nel cuore. Impossibile dimenticare il momento in cui aprì la porta di casa e si trovò davanti gli uomini della Digos che le comunicavano quello che si era consumato poche ore prima al London Bridge. Impossibile cancellare lo strazio di una madre, la nostalgia per quel figlio amatissimo e di cui non aveva saputo cogliere l’avvitamento che lo aveva fatto precipitare nell’abisso del nichilismo, nel folle convincimento di meritare la vita eterna del paradiso togliendo quella terrena ad altri uomini. «Vivo ogni giorno l’assenza di lui, la leggo nel letto in cui dormiva, nei bambini che incontro sulla strada e che me lo fanno ricordare in un’età in cui nulla era ancora accaduto. In fondo, c’è qualcosa che nascondo a me stessa perché troppo lancinante: l’atrocità del gesto che ha compiuto, di cui non so darmi ragione».

LA GRANDE PRESENZA.

Eppure è proprio nei giorni del dolore che comincia a manifestarsi un inatteso cambiamento. «Ho consegnato il mio dolore a Dio e Dio non mi ha lasciata sola: si è reso presente regalandomi una serenità interiore che non immaginavo di poter avere. Non è qualcosa di intimistico, si è manifestato ad esempio nell’affetto di tante donne musulmane come me, qui a Fagnano, e di altre provenienti da comunità islamiche emiliane. Fin dall’inizio, poi, sono stata animata da un desiderio di 'riparazione' nei confronti di chi era rimasto vittima dell’odio di Youssef, e della società tutta. Con alcune sorelle musulmane abbiamo fondato l’associazione Rahma per la formazione religiosa e per il dialogo. C’era bisogno di 'riparare' anche le strumentalizzazioni che si stavano facendo a carico dei musulmani, ingiustamente bollati come inclini alla violenza. E ho capito che anche io avevo bisogno di una riparazione: dopo tanti, troppi anni di immersione in un islam rigido e chiuso, ho ricominciato la ricerca dell’Assoluto che è una costante di tutta la mia vita e che mi ha condotto a militare nella sinistra giovanile, nel femminismo, poi a cercare la mia realizzazione nel teatro sperimentale e infine nell’islam. E ho imparato ad accettare la diversità, a imparare e ad arricchirmi anche da chi ha trovato il senso della vita in una strada differente dalla mia».

UNA MESSA PER YOUSSEF.

In questo itinerario di inesausta ricerca, ha incontrato alcuni cattolici che sono diventati compagni di cammino. È nata un’amicizia con Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata a Bologna e studioso di fonti ascetiche islamiche, con il quale ha partecipato al raduno promosso a Collevalenza dall’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, dove ha raccontato i frutti maturati dalla sua esperienza. «Pochi giorni dopo l’attentato alcuni amici hanno pregato per Youssef e per me durante il pellegrinaggio notturno a piedi da Macerata al santuario di Loreto, un luogo dove viene venerata Maria madre di Gesù, figura molto cara a noi musulmani. E mi hanno promesso che lo faranno anche sabato prossimo, nell’edizione 2018 del pellegrinaggio. Domani, a un anno esatto dalla sua morte, sarò presente a una Messa che viene celebrata in suffragio di mio figlio a Forlì. So che potrebbe scandalizzare alcuni fratelli dell’islam ma io ci sarò, con grande rispetto, commozione e gratitudine. È il modo con cui questi amici pregano Dio perché abbia misericordia di Youssef e per dimostrarmi la loro vicinanza e il loro affetto. E io continuo a sperare che Dio possa perdonare mio figlio». Gesti come questo – e altri che Valeria conserva nel segreto del suo cuore – rendono vere anche per lei le parole scritte dal cantautore Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce».

NOVECENTO STUDENTI.

Il suo desiderio di riparazione l’ha portata all’Università dell’Insubria per due incontri, a Como e Varese, con mediatori culturali e giuristi sul tema del radicalismo islamico. E l’ha resa protagonista di un video realizzato per la mostra 'Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica', inaugurata al Meeting di Rimini 2017 e allestita poi in molte scuole. E proprio a Rimini, in marzo, è stata protagonista – assieme ad alcuni ragazzi di seconda generazione – di un incontro con 900 studenti delle scuole superiori. Un dialogo serrato su educazione, terrorismo, fede e violenza. «Esperienza indimenticabile, dove ho toccato con mano il desiderio di conoscenza e la passione che anima i giovani, troppo spesso raccontati come un mondo superficiale e succube dell’effimero». A loro questa madre orfana del figlio ha raccontato di «un ragazzo come loro, che nella folle illusione di raggiungere un paradiso immaginario aveva ossificato l’esperienza religiosa, rinunciando alla ricerca della verità e della bellezza. Il suo islam era diventato una gabbia fatta di chiusure e divieti, dove viveva schiavo di una visione meccanicistica che l’ha soffocato e l’ha spinto alla distruzione degli altri e di se stesso». Nel libro scritto insieme al giornalista Brahim Marad – 'Nel nome di chi', edito da Rizzoli, in cui racconta la sua odissea – Valeria ricorda le parole dell’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, che l’ha voluta incontrare e che aveva definito le sue dichiarazioni «parole di una madre che scopre qualcosa del proprio figlio, che dimostrano come il virus dell’estremismo può deformare la ragione anche di un ragazzo come lui». È fermamente convinta che sia urgente una rivisitazione della tradizione islamica che combatta l’approccio letteralista del Corano, sempre più invasivo per la pressione del radicalismo wahhabita, e che dia priorità al senso critico, all’esegesi storica, all’uso della ragione. «È la sfida della modernità, affrontata prima di noi dall’ebraismo e dal cristianesimo, e che non possiamo continuare a rimandare se non vogliamo rimanere soffocati da una religiosità imbevuta solo di prescrizioni rigide e immutabili».

L’ORA DEI TESTIMONI.

Dalla sua crepa continua a entrare luce. Come l’amicizia con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, che ospita nella comunità Kayros giovani feriti dalla vita. Due di loro, dopo essere stati adescati sul Web, si sono dileguati per arruolarsi nel Daesh. Uno, Tarik, è morto in combattimento. «Don Claudio e io abbiamo perso entrambi un figlio e vogliamo collaborare per arginare e prevenire la deriva nichilista di cui tanti ragazzi sono vittime». C’è un grande lavoro educativo da fare nelle scuole, nei luoghi di aggregazione giovanile, negli oratori, nelle moschee. «Un lavoro che non può esaurirsi nella sorveglianza, nella moltiplicazione di regole e divieti – alcuni peraltro doverosi. Serve qualcosa che arrivi al cuore dei ragazzi, anche se dobbiamo essere coscienti che in ultima istanza resta decisiva la libertà, alla quale neppure il nostro amore per loro può sostituirsi e della quale non possiamo privarli. Ma soprattutto servono testimoni credibili a cui guardare, persone che accendano un’attrattiva umana capace di suscitare il desiderio di bene che – ne sono convinta – abita nel cuore di ogni persona».

Buon cammino, Valeria.