Opinioni

I Papi e l'islam. Gesti e parole, i risultati del dialogo

Mimmo Muolo martedì 19 marzo 2019

Due visite in altrettanti Paesi a maggioranza musulmana, Abu Dhabi e Marocco, nel giro di due mesi, aggiungono un altro anello alla catena degli eventi senza precedenti nel pontificato di papa Francesco. Ma non è solo per questo che i due viaggi, evidentemente concatenati, si segnalano come un fatto unico. Al di là infatti del loro indubbio valore sul piano del dialogo islamo-cattolico, essi ci permettono di ritornare su una questione più profonda e negli ultimi tempi spesso controversa: la continuità magisteriale che lega l’attuale Pontefice ai suoi due immediati predecessori.

Chi guarda a papa Bergoglio senza le diottrie del pregiudizio non può in effetti non vedere nel suo atteggiamento dialogante con il mondo musulmano il riflesso e il naturale sviluppo di quanto fatto prima di lui da Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger. Egli sta agendo proprio nel solco tracciato dai suoi due immediati predecessori, che è poi la strada aperta dal Concilio Vaticano II. E ne è ulteriore conferma la stessa visita in Marocco, in programma il 30 e 31 marzo, che non può non richiamare alla mente il memorabile viaggio di papa Wojtyla nel 1985, coronato dal discorso che rivolse il 19 agosto ai giovani musulmani.

Nello stadio di Casablanca il pontefice ora santo ricordò ai suoi interlocutori che «la Chiesa cattolica guarda con rispetto e riconosce la qualità del vostro cammino religioso, la ricchezza della vostra tradizione spirituale». «Anche noi, cristiani, siamo fieri della nostra tradizione religiosa», aggiunse il Papa enumerando poi i punti di contatto fra le due religioni e non nascondendo le differenze, a partire da quella più importante e fondamentale, concernente la figura e il ruolo salvifico di Gesù Cristo. Soprattutto, però, Giovanni Paolo II rimarcò il concetto che «se in passato cristiani e musulmani, generalmente ci siamo malcompresi, e qualche volta, ci siamo opposti e anche persi in polemiche e in guerre», oggi – così disse – «io credo che Dio c’inviti a cambiare le nostre vecchie abitudini. Dobbiamo rispettarci e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio». Parole che non ci si stupirebbe di sentir pronunciare da Francesco (così come infatti è avvenuto già più volte) e che soprattutto riecheggiano l’insegnamento di Nostra Aetate, cioè appunto del Concilio: «La Chiesa guarda con stima anche i musulmani che adorano l’unico Dio... Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e ad esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà».

Oggi, a distanza di 34 anni vediamo in questa posizione il baluardo posto sin da allora contro la deriva dello scontro di civiltà. Uno scudo così impenetrabile che – è bene riconoscerlo – ha resistito malgrado tutti gli eventi tragici di questi decenni. Se infatti quello scontro è stato evitato, e non c’è stato il minimo appiglio per ammantare violenze dovute ad altre cause delle mentite spoglie di una guerra di religione, lo si deve proprio alla barra del timone sempre tenuta ferma da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora da Francesco sulla stella polare del dialogo interreligioso.

La prima conferma arrivò da lì a un anno, quando proprio san Giovanni Paolo II invitò ad Assisi i leader religiosi di tutto il mondo – islamici compresi naturalmente – per invocare insieme la pace, in un tempo segnato dalla contrapposizione tra le grandi Potenze e dall’incubo dell’olocausto nucleare. Assisi, come sappiamo, ha segnato un punto di non ritorno nei rapporti tra le religioni e il suo spirito ha permeato sempre più anche i rapporti tra cristiani e musulmani. Al punto che nel 2001, persino di fronte all’«inqualificabile orrore» dell’11 settembre, lo stesso Giovanni Paolo II non parlò mai di matrice islamica dei luttuosi eventi, pur condannandoli senza appello e ricordando che «mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell’umanità». Anzi, il successivo 23 settembre, durante la visita in Kazakhstan, Paese a maggioranza musulmana, sottolineò esplicitamente che «la religione non deve mai essere utilizzata come motivo di conflitto ». E il 24 gennaio 2002, di nuovo ad As- sisi dove aveva nuovamente invitato i leader religiosi, aggiunse: «Non v’è finalità religiosa che possa giustificare la pratica della violenza dell’uomo sull’uomo».

Purtroppo a quel «giorno buio per l’umanità» (così papa Wojtyla definì l’11 settembre) ne seguirono diversi altri, senza che però mutasse di una virgola l’atteggiamento del magistero pontificio. Quando l’11 marzo 2004 la principale stazione di Madrid fu colpita da una serie di esplosioni che causarono 191 morti e più di duemi- la feriti, nuovamente Giovanni Paolo II non fece alcuna menzione della matrice islamica degli attentati. E anche Benedetto XVI seguì la stessa linea di fronte agli attentati di Londra, il 7 luglio 2005, arrivando anzi a invocare: «Fermatevi in nome di Dio». Convinzione ribadita anche a un gruppo di giornalisti che lo avvicinarono, come ricordato di recente anche da Salvatore Mazza su queste stesse colonne, in Val d’Aosta durante la sua breve vacanza: «Non direi violenza islamica, si tratta di piccoli gruppi fanatizzati, e non dobbiamo confondere». Anche Papa Ratzinger dunque non ha mai parlato di terrorismo islamico, semmai di «pernicioso fanatismo di matrice religiosa» e di «falsificazione della religione stessa » (7 gennaio 2013, discorso al Corpo diplomatico). Nella lettera Ecclesia in Medio Oriente, del 2012, egli stesso sottolineava che «i musulmani condividono con i cristiani la convinzione che in materia religiosa nessuna costrizione è consentita, tanto meno con la forza» e che «la minaccia di fondamentalismo tocca indistintamente e mortalmente i credenti di tutte le religioni». Una frase 'copiata' da Francesco nel 2016, nella consueta conferenza stampa in aereo, tornando dalla Gmg di Cracovia: «Gli islamici non sono tutti violenti. In tutte le religioni c’è sempre un piccolo gruppetto fondamentalista. Anche noi ne abbiamo».

È vero che in questo coro a più voci qualcuno ha tentato di indicare come nota stonata il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, ma l’operazione va respinta senza appello. Perché quel discorso, lungi dall’essere antislamico (come in effetti avvenne a causa di una grave distorsione mediatica) è un gigantesco dito puntato contro la cattiva coscienza dell’occidente che ha relegato la religione nel sottoscala della subcultura. Lo testimonia il fatto che, chiarito l’iniziale fraintendimento, 38 intellettuali musulmani, successivamente diventati 138, risposero con una lettera di riflessione intitolata Una parola comune. E che quando nel settembre del 2012 papa Ratzinger si recò in Libano, persino Hezbollah lo accolse con striscioni di benvenuto.

Tre Pontificati, una sola linea, dunque. Avvalorata e rafforzata di volta in volta da gesti e incontri di rilievo storico, come la prima visita di un Papa in una moschea (Giovanni Paolo a Damasco nel 2001), poi reiterata da Benedetto XVI a Istanbul nel 2006 e da Francesco nel 2014 (entrambi nella Moschea Blu). Nel pontificato di Francesco quei gesti avvengono con frequenza ancora maggiore, a partire dalla sua preghiera per la pace in Siria, pochi mesi dopo l’elezione, che di fatto scongiurò l’allargamento del conflitto alle grandi Potenze. Né è possibile dimenticare l’abbraccio con l’imam Omar Abboud e il rabbino Abraham Skorka, invitati al viaggio in Terra Santa, davanti al Muro del pianto nel 2014. Oppure i diversi incontri con l’imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyb, culminati nel viaggio in Egitto nell’aprile 2017. Oppure ancora le parole pronunciate in difesa di una delle minoranze musulmane più perseguitate al mondo, i Rohingya, durante la visita in Myanmar e Bangladesh nel dicembre dello stesso anno.

La novità dell’ultimo periodo è che non si tratta più di segni a senso unico. La conferma del verdetto di innocenza per Asia Bibi da parte della Corte supremo del Pakistan, la 'Dichiarazione di Islamabad' contro il terrorismo e le violenze compiute dagli estremisti in nome della religione, firmata all’inizio di gennaio da più di 500 predicatori islamici pachistani, e la stessa dichiarazione comune sulla 'Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune', siglata durante la storica visita ad Abu Dhabi, la prima di un Papa nella penisola arabica, costituiscono non solo un importante passo verso un dialogo sempre più effettivo ed efficace, ma anche la prova che il dialogo è l’unico vaccino possibile contro lo scontro di civiltà. Papa Francesco sta rafforzando questa certezza con l’indicazione accorata dei problemi da affrontare insieme, a partire dalla questione migrazioni, che resta uno dei fattori di instabilità più forti sullo scenario mondiale. In Marocco, infatti, visiterà un centro per i migranti, come a ricordare la centralità del problema e a sottolineare che cristiani e musulmani sono anche da questo punto di vista sulla stessa barca. Ad Abu Dhabi, del resto, Francesco ha usato la metafora dell’arca per ricordare quanto sia necessaria la fratellanza per «solcare i mari in tempesta del mondo». Un’immagine che richiama le tante imbarcazioni di disperati colate a picco tra le due sponde del Mediterraneo. E che in un certo senso è un monito affinché a non naufragare sia l’intera arca dell’umanità.