Opinioni

Il senso della battaglia e della scarcerazione del «prigioniero di coscienza». Cuba, Biscet ha vinto

Lucia Bellaspiga lunedì 14 marzo 2011
Non solo un prigioniero politico: per Amnesty International era un «prigioniero di coscienza». Anzi, visto il rigore della detenzione e la lunghezza della pena che avrebbe dovuto scontare – 25 anni – era «il massimo prigioniero di coscienza oggi al mondo». Ma da ieri Oscar Elias Biscet, medico, da otto anni recluso nelle carceri cubane, è un uomo libero. Confinato in celle prive di finestre e bagno, condannato a lunghi periodi di isolamento o rinchiuso insieme ai più violenti criminali, era ormai ridotto all’ombra di se stesso, eppure non ha mai piegato il capo, rifiutando la libertà che gli veniva offerta a condizione che partisse per l’esilio: se tornerò libero, sarà all’Avana, rispondeva. E così è stato. Minato nel fisico ma forte nell’anima, ai suoi sostenitori in tutto il mondo mandava a dire: «La mia coscienza e il mio spirito stanno bene». È un uomo “pericoloso”, Biscet, e le autorità castriste se ne accorsero già nel 1994 quando, poco più che trentenne, fu accusato proprio di “pericolosità”. Avevano visto giusto: col tempo questo medico dallo sguardo fermo e il viso da attore, seguace di Gandhi e Martin Luther King, ma ancor prima di Gesù Cristo, avrebbe piegato uno dei regimi più longevi e inflessibili, armato soltanto di nonviolenza e preghiera. Prigioniero di coscienza, appunto, e non politico, o non solo: la sua lotta contro il regime dei Castro non mira ad affondare una forma di governo ma a costruire «una società basata sui princìpi non negoziabili». Primo tra tutti quello alla vita: «Non esiste un diritto alla morte», afferma da medico Biscet, che nel 1998 consegna alle autorità un dossier in cui accusa il Sistema sanitario nazionale per la pratica aberrante con cui i neonati vengono «abortiti dopo la nascita», ovvero lasciati morire senza assistenza. Una sorta di eutanasia passiva che il medico, sfidando le censure, definisce «genocidio» in un testo giunto fino a Ginevra, alla Convenzione sui diritti del bambino. Sono gli anni in cui costituisce la Fondazione Lawton per la libertà di espressione, immediatamente messa fuori legge. La prima condanna al carcere arriva nel 1999, quando Biscet si batte per l’abolizione della pena di morte. Una volta scarcerato, si rivolge ai suoi colleghi diffondendo negli ospedali uno scritto “In difesa della Vita”... Prima è licenziato, poi espulso dal Sistema sanitario nazionale con il divieto di esercitare la professione, infine di nuovo condannato. «Nessuno Stato, nessun governo, nessun giudice può arrogarsi il diritto di dare la morte», ripete instancabile dal carcere attraverso i suoi sostenitori, che nel mondo diventano via via sempre più numerosi non solo tra i fuoriusciti cubani, e che si fanno megafono del suo no all’aborto e all’eutanasia. È sua figlia Winnie, 22 anni, studentessa infermiera a Miami, a entrare in contatto con Scienza&Vita qui in Italia e a cogliere la consonanza tra le parole del padre e le battaglie condotte dall’associazione. È sempre Winnie a raccontare al padre detenuto quanto avviene in Italia nel 2009, quando per la prima volta una persona viene lasciata morire di inedia, senza colpe, proprio come quei neonati di Cuba per cui era andato incontro al carcere, e allora da dietro le sbarre la sua parola esce potente in difesa di Eluana Englaro, chiedendo – questa volta ai medici italiani, liberi di agire e di alzare la voce – che non accada più. I nostri media tacciono. «È questione di ore», scriveva ieri Winnie in un commosso messaggio giunto al presidente di una piccola ma attivissima sezione di Scienza&Vita, a Pontremoli. Poi l’annuncio: «Da mezzanotte è libero». All’Avana, come voleva lui.