Opinioni

La sfida. Così la pubblica amministrazione può essere tutta a emissioni zero

Leonardo Becchetti Claudio Becchetti Francesco Naso martedì 25 ottobre 2022

In materia di energia e clima il primo atto del nuovo governo è stato quello di una rivoluzione semantica che ha trasformato il ministero della Transizione ecologica in ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica. La sostanza delle cose non cambia perché l’emergenza climatica (dopo le ondate di calore estive l’ottobre sinora più caldo di sempre), i costi di produzione di energia, il problema dei prezzi delle bollette che mettono in ginocchio famiglie e imprese e la “sicurezza energetica” spingono tutti nella stessa direzione di libertà e indipendenza da paesi terzi che decidono come, quando e a quali costi fornirci energia. Un mondo nel quale una quota crescente di energia proviene da fonti rinnovabili e, possibilmente, è autoprodotta da cittadini e imprese è un mondo più sicuro e più libero.

Per capire quanto questa via sia efficace e praticabile facciamo alcuni esempi che riproducono in forma sintetica analisi più ampie ed approfondite che non possono essere interamente riprodotte in un articolo. L’11 aprile un ministro del precedente governo (Renato Brunetta) lancia l’idea di mettere pannelli su un milione di edifici pubblici. Parole che sembrano essersi perse nel vento. Era una buona idea. Il nostro punto è che se le superfici utili dei beni immobili pubblici fossero coperte con fotovoltaico, creando comunità energetiche con meccanismi di solidarietà contro la povertà energetica avremmo simultaneamente risparmio per la Pubblica amministrazione, supporto a persone in difficoltà e uno stimolo a lavoro locale di buon contenuto tecnologico.

La mappatura del patrimonio pubblico censisce circa 2,62 milioni di beni immobili di cui circa la metà fabbricati e l’altra terreni. Pensare di non affrontare le installazioni di fotovoltaico a terra concentrandosi unicamente sui tetti è un errore da non commettere se vogliamo installare velocemente tanta potenza rinnovabile. Le installazioni a terra se ben guidate sono e saranno perciò fondamentali. Dalla mappatura del Ministero dell’Economia desumiamo che le superfici dei terreni di proprietà della Pubblica amministrazione ammontano a più 28 miliardi di metri quadrati. Supponiamo di non considerare i terreni “boscati e dedicati al pascolo”, che pure potrebbero essere utili all’installazione di fotovoltaico su pensiline (sotto le quali gli animali da pascolo possono anche trovare riparo) o a pale eoliche che non compromettono la destinazione del terreno. Se prendiamo unicamente l’1% delle aree urbane e dei terreni agricoli di proprietà pubblica attualmente inutilizzati avremmo una potenza di 5 gigawatt installata che produrrebbe più di 6,7 terawattora (cioè miliardi di chilowattora), una volta e mezzo i consumi della Pubblica amministrazione.

I fabbricati su cui stiamo ragionando sono oltre 943mila per una superficie di 363 milioni di metri quadrati. Per valutare le superfici utili ipotizziamo un utilizzo fortemente conservativo delle stesse (perché non tutte esposte correttamente a sud, perché non tutti i tetti possono reggere gli impianti o hanno una conformazione piatta e libera da ombreggiamenti, ecc.) eliminando per altro edifici su cui difficilmente si potrebbe installare: si ottengono così poco più di 30 milioni di superfici utili. Assumendo che per un chilowatt di picco di un pannello siano necessari 10 metri quadrati, anche questo ampiamente conservativo con i pannelli più recenti, otterremmo quasi 3,1 GW totali installabili, corrispondenti (assumendo 1.450 ore equivalenti medie, a Meridione sono di più che al Settentrione) a quasi 4,5 terawattora di energia prodotta, sostanzialmente uguale al consumo totale di tutta la Pubblica amministrazione (che è l’utente che consuma più elettricità in Italia). Ciò non significa che si riuscirebbe ad utilizzare tutta quella energia per soddisfare il fabbisogno poiché non tutti i consumi della pubblica amministrazione sono contemporanei alla produzione da fotovoltaico; ciò significa che una parte della energia prodotta dagli impianti pubblici letteralmente “avanza”.

Se consideriamo che un quarto della energia non viene autoconsumata dalla stessa Pubblica amministrazione durante le ore diurne (diciamo 9.00-18.00) questa energia potrebbe essere messa a disposizione di famiglie che vivono nei pressi degli edifici pubblici e che vedrebbero un bel risparmio in bolletta. Considerando che l’Arera, l’Autorità di regolazione dell’energia, stima che il 35% dei consumi delle famiglie avvengono nella fascia oraria in esame, quasi 1,2 milioni di famiglie potrebbero usufruire di quella energia a prezzi molto bassi ottenendo un risparmio in bolletta come parte di una comunità energetica rinnovabile e, al contempo, la Pubblica amministrazione soddisferebbe il 75% dei suoi consumi attraverso l’energia che si produce da sola, mitigando di molto l’impatto delle fluttuazioni dei prezzi del mercato elettrico.

Potremmo iniziare questa grande rivoluzione nelle scuole. Quelle statali sono intorno alle 46.335 e al Sud 16.500 (dati Consip). Iniziando dalle scuole del Sud Italia, dove la producibilità è più alta e ci sono più persone in povertà energetica, possiamo prudenzialmente prendere in considerazione 15mila scuole, circa un terzo del totale nazionale. In base alle superfici utili precedentemente calcolate per ciascuna tipologia di edificio, il potenziale di produzione è di circa 300 megawatt di picco, cioè un impianto medio di 20 chilowatt di picco per ciascuna scuola, con una energia totale prodotta che è fra i 400 e i 450 GWh. Considerando che il consumo di quelle 15mila scuole, prendendo le valutazioni fatte da Enea sui consumi della Pubblica amministrazione, si aggirerebbe intorno ai 640 GWh, la produzione sembrerebbe non bastare per altri utenti. Tuttavia, nei week end e d’estate, quando per altro gli impianti producono di più, difficilmente la scuola va in autoconsumo e quindi immetterebbe in rete gran parte dell’energia prodotta. Ed è proprio in questi momenti che quell’energia potrebbe essere usata dagli abitanti delle abitazioni limitrofe o magari dalle famiglie della scuola con redditi più contenuti attraverso la creazione di comunità energetiche ad hoc. Parliamo di supportare più di 150mila famiglie coprendo una parte dei loro consumi e, contemporaneamente soddisfacendo quasi la metà dei consumi di 15mila scuole. L’installazione di tali impianti potrebbe affiancarsi a interventi di messa in sicurezza e di efficientamento degli edifici scolastici.

Una proposta simile per altro è già stata avanzata anche da Legambiente e altre associazioni con il “Manifesto Scuole e Università a zero emissioni”, in cui si chiede al governo di sfruttare i 17 miliardi di euro del Pnrr dedicati alle scuole per renderle parte attiva di una comunità energetica, oltre che per interventi di messa in sicurezza e riduzione dei consumi. Inoltre, il decreto legge 63/2013 ha previsto obblighi di riqualificazione spinta degli Enti pubblici, prevedendo che, a partire dall’inizio del 2019, gli edifici di nuova costruzione occupati da pubbliche amministrazioni e di proprietà di queste ultime, ivi compresi gli edifici scolastici, devono essere edifici a energia quasi zero. Dal 1° gennaio 2021 la disposizione citata è estesa a tutti gli edifici di nuova costruzione ed esistono oggi incentivi per la produzione da rinnovabili da parte della Pubblica amministrazione.

Il nuovo governo può cogliere queste opportunità, dando nuovo slancio a libertà, indipendenza e sicurezza energetica conquistando così il sostegno e il plauso di cittadini e imprese.