Opinioni

Analisi. Coronavirus, effetti pesanti sulla mortalità e la natalità

Alessandro Rosina martedì 17 marzo 2020

Da quando è cominciata l’emergenza del coronavirus, sono cresciute la fiducia nella scienza e l’attenzione ai dati. La voce degli esperti ha conquistato la scena nel dibattito pubblico e i numeri che essi forniscono sono diventati le coordinate essenziali comuni per capire la gravità della situazione, aiutandoci ad evitare sia la sottovalutazione sia l’allarmismo. Del resto, l’entrata nella modernità è avvenuta proprio attraverso la raccolta organizzata di dati utili a capire la realtà per migliorarla. Tra i primi dati ci sono i decessi che molti comuni nel Medioevo, soprattutto dopo la peste del Trecento, hanno cominciato a registrare giornalmente. Uno dei principali scopi era proprio avere un indicatore di inizio d’epidemia e un’approssimazione della sua gravità. Dati che ci consentono oggi di farci un’idea dell’impatto devastante che nel passato avevano vaiolo, colera, tifo e, soprattutto, la peste.

Oggi fortunatamente non abbiamo più tale spada di Damocle permanente sulla testa, anzi, la liberazione dal terribile flagello delle grandi epidemie è stato il primo segnale concreto di entrata nel mondo in cui oggi viviamo. Ma tutto ciò che abbiamo guadagnato in salute e condizioni di vita va salvaguardato e rafforzato continuamente, perché nulla è scontato. È il primo messaggio che do ai miei studenti nel corso di Demografia all’Università Cattolica: il vivere meglio e più a lungo di oggi rispetto alle condizioni tipiche che l’umanità ha sempre avuto in tutta la sua storia non è la conseguenza di una transizione a un nuovo equilibrio raggiunto in modo irreversibile. È, piuttosto, l’esito di un impegno a migliorare continuamente, tenendo sotto controllo i vecchi rischi e affrontando con successo i nuovi. Solo così potremmo godere anche delle nuove opportunità.

L’attuale emergenza rappresenta un forte monito in questo senso. Il Covid- 19 è per l’Italia la crisi sanitaria peggiore degli ultimi cento anni, pur essendo decisamente inferiore alle epidemie dei secoli precedenti. Il grado di contagio e il tasso di letalità della peste erano tali da falcidiare oltre un terzo degli abitanti in pochi mesi. Mai però, nel secondo dopoguerra, era accaduto di trovarsi con alcune aree del Paese a subire un aumento di oltre il 50% dei decessi giornalieri. In Lombardia, la media nel mese di marzo è stata negli anni scorsi attorno ai 300 decessi al giorno (attorno ai 250 ad aprile). L’epidemia da sola è arrivata a causarne altrettanti: il 15 marzo per la prima volta si sono infatti superate le 250 vittime. È però vero che il virus colpisce soprattutto persone molto anziane e particolarmente fragili, anticipando in buona parte decessi che sarebbero avvenuti poco più avanti (l’età media delle vittime è superiore agli 80 anni), quindi è verosimile che alla punta di questi mesi possa poi seguire nel resto dell’anno un numero più basso rispetto alla media. Se nella maggioranza dei casi il Covid-19 interviene come una concausa di morte, non mancano i casi di chi non aveva altre patologie. Al netto di queste precisazioni, il livello raggiunto dai decessi nonostante le misure adottate fa ben comprendere la gravità di questo virus e il costo umano in grado di produrre.

L’impatto demografico non si ferma però alla mortalità. Ci si può attendere una riduzione sensibile anche della fecondità, già molto bassa in Italia. I fattori frenanti sono l’aumento delle difficoltà economiche, il rallentamento per i giovani dell’accesso al lavoro, la posticipazione delle scelte di autonomia e formazione di una propria famiglia, l’incertezza sul dopo. Possibili effetti positivi si possono invece avere per una parte delle coppie già formate, in buone condizioni economiche, che si trovano con più tempo da trascorrere assieme. Ma l’impatto complessivo atteso rischia di essere negativo, soprattutto sulle scelte delle nuove generazioni. Più in generale, se la mortalità colpisce soprattutto le classi di età avanzata, le principali conseguenze indirette del contenimento del virus tendono a ricadere significativamente proprio sui più giovani. È a essi che vengono chiesti i maggiori sacrifici per proteggere, giustamente, le generazioni più mature. Perdono giorni di scuola in un Paese che già ha forti criticità nella formazione (con rischio di aumento delle diseguaglianze, come avverte un comunicato congiunto di Investing in Children e Alleanza per l’infanzia). Perdono opportunità di lavoro in un Paese che ha già il record di Neet in Europa. Perdono reddito, in un Paese in cui a crescere negli ultimi anni è stata soprattutto la povertà delle coppie under 35 con figli. E devono ancor più rinviare la realizzazione dei propri progetti di vita in un Paese che presenta l’età più tardiva al primo figlio.

Uno degli Stati europei che meno hanno investito in tempo di 'normalità' sulle nuove generazioni, che più hanno caricato debito pubblico sul loro futuro, che più hanno visto la crisi economica incidere sui nuovi entranti nel mondo del lavoro, si trova ora a chiedere ai giovani il maggior impegno di solidarietà verso le generazioni più mature. Se vogliamo il bene delle nuove generazioni, ma soprattutto se vogliamo che il bene che le nuove generazioni possono generare diventi la spinta per una ripartenza vitale dopo l’emergenza, è necessario costruire fin d’ora un piano che restituisca a esse una posizione centrale nelle politiche del Paese. Un piano orientato a rafforzare la loro formazione, l’ingresso qualificato nel mondo del lavoro, la valorizzazione del capitale umano, la realizzazione piena dei progetti di vita. Questo renderà anche più solido e solidale il Paese di fronte a prossime nuove emergenze.