Opinioni

La Chiesa, il mondo e noi cronisti. Il coraggio e la misura

Marco Tarquinio domenica 17 marzo 2013
Le parole di carta di giornale sono spesso po­vera cosa. E così quelle che usiamo in tv, per radio e per internet. Briciole di vita altrui, bran­delli dei giorni che tutti assieme viviamo, fram­menti delle vicende del potere e di chi lo eser­cita, minimi pezzi della complessa realtà del mondo, strani baluginii – come provenienti dal­le schegge di un vecchio specchio in frantumi – degli eventi ecclesiali, granelli impalpabili o retorici di attenzione per i poveri... Per di più, nelle narrazioni massmediatiche non sempre tutto questo si compone in armonia – che è giu­sta misura, rispetto della proporzioni e sensa­to e costruttivo coraggio. Chi legge questo gior­nale sa che siamo tra quelli che provano ogni giorno, da quasi 45 anni, a trovare misura, ad avere sereno rispetto e a conservare il coraggio per offrire un’informazione dal volto umano e dallo sguardo cristiano. Sguardo che tutto com­prende, niente confonde e nessuno esclude.Papa Francesco, ieri, ci ha detto che vale la pe­na di perseverare. E ci ha dimostrato, dandoci un solare esempio, che non c’è altro da fare. Perché cercare di avere come bussola, nel me­stiere di informare, «verità, bontà e bellezza» non è un sogno da sciocchi, ma l’impegno ne­cessario. Oggi più mai. È questa la via che porta a ciò che è – che do­vrebbe essere – davvero essenziale per noi gior­nalisti e per tutti coloro che sfioriamo e 'con­tagiamo' con il nostro lavoro. E il successore di Pietro ci ricorda che è la stessa via della Chie­sa, che «esiste per comunicare proprio questo: la Verità, la Bontà e la Bellezza 'in persona'». Gesù Cristo. È una via che conduce – il Papa «preso quasi alla fine del mondo» lo sottolinea con la delicatezza e la forza coinvolgente del suo «Ah, come vorrei...» – all’essenzialità di «u­na Chiesa povera e per i poveri». Tutt’altro, in­somma, nella nostra Chiesa, che un cammino da barricati o da barricadieri, da pessimisti sen­za luce e da fedeli infedeli, da cristiani senza Croce e senza carità. Tutt’altro, nelle redazioni, che un lavoro da cro­nisti senza occhi limpidi e senza passione per l’umanità. Certo, noi giornalisti sappiamo che ci tocca di usare questa povera cosa che sono le nostre parole di carta per onorare il dovere grande di raccontare la vita, e di contribuire a farla migliore.​​​ Ma sappiamo anche che quando riusciamo a far comprendere un’ingiustizia, l’ingiustizia comincia a finire.Sappiamo che quando facciamo aprire gli occhi su una guerra – poco importa se condotta con le armi o con le speculazioni finanziarie – e su come si alimenta, quella guerra finalmente perde virulenza e la strage di vita e di speranza che provoca si rivela per l’immane scandalo che è sempre stata. Sappiamo che quando vediamo e facciamo emergere il bene che ogni giorno accade e segna il mondo, ci rincuoriamo e rincuoriamo i nostri lettori e, tutti assieme, sconfiggiamo il male e la tentazione di rassegnarci – per fascinazione o per quieto vivere – alle sue lusinghe. Sappiamo che quando troviamo il modo di comunicare la bellezza della Creazione e dell’ingegno umano, facciamo nuova la bellezza e smettiamo di distruggerla per avidità, per incuria, per imbelle nostalgia o per smemoratezza. Sappiamo, cioè, che la consapevolezza cambia il mondo. E cerchiamo di farla crescere. E cerchiamo di essere degni di questo compito. Da cattolici, poi, intuiamo che la consapevolezza è il nome 'laico' della fede o anche solo la sua libera e misteriosa manifestazione nelle coscienze. Il Papa lo ha detto ieri con dolce e forte chiarezza, dopo averci benedetto e chiamato tutti, cristiani e no, alla dignità e al libero dovere di «figli di Dio». Fratelli, soprattutto dei più deboli e fragili, di coloro che sono poveri e non per loro scelta. Ci ha spiegato il lavoro da fare e il suo stesso nome, Papa Francesco. Ci ha scomodato, ci ha spinto ad aprire il cuore e ci ha indicato dove posare gli occhi e mettere le mani. ​