Opinioni

Geopolitica, miseria e migrazioni. Conti francesi in terra d'Africa

Paolo Lambruschi mercoledì 27 settembre 2023

Se Parigi val bene la Messa (papale a Marsiglia) anche per il laicissimo presidente della Repubblica francese Macron, va meno bene commentare le parole di Francesco dicendo che l’Europa e la Francia non possono “accogliere tutta la miseria del mondo”. Perché il ragionamento di Macron non fa una grinza dal punto di vista numerico, ma cela un sostanziale “non detto” e una malcelata ipocrisia. Ci si attendeva un salto di qualità, cioè, dall’inquilino dell’Eliseo, dopo i recenti fallimenti in politica estera sul continente africano, fallimenti che causano sofferenze e flussi migratori in crescita dai Paesi dell’ormai ex Franceafrique verso il Mediterraneo.

Il sentimento antifrancese che accomuna quasi metà dei 54 membri dell’Unione africana di lingua francese non nasce dal nulla. Ripensamenti e critiche sulla politica africana sono in atto da tempo nella società civile transalpina. La missione Barkhane nel Sahel che chiuderà, come scriveva acutamente ieri Francesco Palmas su questo giornale «è un fiasco delle élite politico-militari francesi, simile alla disfatta afghana degli americani, entrambe frutto di un’ignoranza colpevole del lato sociale, economico e umanitario delle crisi».

La Francia, che doveva contrastare i jihadisti di al Qaeda e dello Stato islamico, è stata estromessa dalla regione saheliana da militari golpisti sostenuti dal popolo. E non è solo colpa dei troll russi se i mercenari della Wagner stanno sostituendo i francesi lasciando in mano al Cremlino le rotte migratorie occidentali. Senza contare le responsabilità nel disastro in Libia, sbocco di tali rotte, dove sempre i francesi hanno avuto un ruolo chiave nell’eliminazione del colonnello Gheddafi e oggi sostengono il generale Haftar a Bengasi, perpetuando la divisione dello Stato per interessi energetici e militari.

L’interpretazione dello storico senegalese Mbaye Bashir Lo sul declino francese è interessante. Anzitutto nessuna delle dieci maggiori economie africane è francofona, mentre lo sono sei fra quelle più povere del continente. E, ciliegina sulla torta, undici dei quattordici Paesi che usano come moneta il franco Cfa – legato all’economia francese e considerato il simbolo del neocolonialismo di Parigi – sono tra i meno sviluppati. Lo sfruttamento neocoloniale delle risorse, come le miniere di uranio in Niger, non ha portato alcun vantaggio alla popolazione. Certo, non è un solo un modello made in France: la logica “estrattiva” ha ispirato in anni recentissimi anche i cinesi. E contribuisce a spiegare il calo di popolarità del concetto di democrazia nei Paesi francofoni.

La Francia non può allora “accogliere tutta la miseria del mondo” – e comunque, va detto, accoglie molti rifugiati – ma non può nemmeno negare di aver contribuito a crearla. Non basta chiedere un atteggiamento più umano ai gendarmi sui confini chiusi a Mentone e al Monginevro solo per chi ha la pelle scura. Servirebbe la forza di voltarsi indietro e ispirarsi a Robert Schuman e Jean Monet, due padri fondatori della Comunità europea, oggi diventata Ue grazie anche ai loro sogni e al loro realismo. Unione Europea che va rafforzata per svolgere un ruolo di pacificatore in uno scenario multipolare dove l’Onu risulta sempre più debole. Come? Magari con la rinuncia al seggio permanente nel vetusto consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a favore dell’Ue, per facilitare la riforma dell’Onu. Sarebbero così rappresentate, nel massimo consesso globale, 400 milioni di persone e l’Europa potrebbe adottare una politica estera unitaria più cooperante anche per l’Africa. Questo è un tempo che ha bisogno di coraggio. Con una grande Nazione come la Francia disposta a rinunciare ad un pezzo di sovranità per imprimere una svolta storica, la parola grandeur diventerebbe sicuramente inclusiva.