Opinioni

L'ULTIMA "ENCICLICA" DI BENEDETTO XVI. Con lui, nella trincea della preghiera

Gloria Riva martedì 26 febbraio 2013
Sono uscita all’alba nel parco del nostro monastero, in cuore avevo le parole dell’Angelus del Papa: vado sul monte, non abbandono, continuerò il mio compito di pastore nella preghiera. Parole folgoranti per il mio quotidiano. Anch’io sono sul monte e vivo una vita di preghiera. Preghiera che non è rifugio, ma presenza davanti alla Presenza, lotta, amore, silenzio. Spazio di profondità del cuore. I passi che mi separano dal parco sembrano eterni dentro il flusso dei pensieri. «Prego per l’Italia», ha detto il Papa a Napolitano: il mio Paese, amato e tormentato, incapace di decollare eppure mai sconfitto. Un Paese che è Mistero agli stessi italiani.Il parco bagnato dal chiarore del mattino, riluce di splendore. La neve è intatta, come un’anima vergine che attende l’incontro con Dio. Rileggo in essa le tante discese dentro il mio cuore: nelle orazioni serali, nelle lectio divine, nel canto dei salmi. Un’attesa di Dio, cercato in un gelo che sembra non finire mai. I miei passi affondano nella neve, la graffiano appena e mi duole rompere un silenzio così profondo. D’un tratto però scorgo delle orme freschissime: sono tracce di capriolo. D’improvviso il parco non è più teatro di solitudine, è colmo di questa presenza, invisibile ma certa. Con trepidazione seguo le orme, i miei passi si fanno più decisi e insieme cauti nel desiderio di scorgere il miracolo di quel capriolo, sceso a valle in cerca di cibo.Ecco a quale preghiera allude il Papa: vedere una Presenza dove altri non vedono che neve e deserto; avvertire l’urgenza di tacere per fissare lo sguardo su quelle tracce, invisibili ai più ma chiare ai vigilanti. Il Santo Padre vede le tracce di quel Capriolo, di quell’Agnello ritto e Immolato che tiene nella sua mano i sigilli della storia. Cristo è l’unico che può aiutarci a comprendere noi stessi, nel caotico vociare che confonde animi e sguardi. La Chiesa non può essere solo la Croce Rossa dell’umanità, la diplomazia efficace che pesa atti di pace fra i popoli. La Chiesa, come scrisse Eliot, è la Straniera, Colei che vede e sa. Il "vedere della preghiera", dunque, non è quiete né fuga, dalla trincea. Al contrario è intercedere, stare tra chi si ama e il nemico, accettare su di sé i colpi prima di altri, per segnalare il pericolo imminente.Siedo sul muretto che separa il sentiero dal resto del parco. Qui più facilmente posso osservare le tracce. Avverto la stanchezza della corsa nella neve alta e mi ricordo solo ora del libro che ho in mano: Etty Hillesum, Diario. Lo sguardo cade su un passo che diventa eco profonda dei miei pensieri: «Credo di poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita e di questo tempo. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò più come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio piegato».Non è vero che solo chi ha fede, solo chi vive una sorta di pauperismo del cuore per cui la gravità della vita sembra insopportabile, può scegliere la via della preghiera. Etty non era né tra gli uni né tra gli altri. Ebrea, agnostica, scopre da un cristiano il mistero dello stare in ginocchio, come partecipazione radicale alla realtà, come giudizio critico sulla storia, e percepisce la preghiera come la più grande risorsa del cuore umano: «Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, […] me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni  di un giorno fin troppo lungo e pensavo: "Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca"».Sì, il Santo Padre dice a noi contemplativi: è l’ora di essere il cuore pensante di questa baracca che è il mondo, sempre chiassoso, in lite, sempre vagabondo sotto la pressione dei suoi istinti, eppure bisognoso di salvezza.Il suono della campana rompe il silenzio del bosco: è l’ora della preghiera. Mai rientro mi è risultato sì caro. Nella penombra del coro, risplende il Santissimo Sacramento. Mi inginocchio con tutte le altre, mentre ripenso alle orme di quel capriolo sulla neve. Eccola, davanti a me, la traccia eterna di cui parlava Peguy nel suo Veronique! Il Papa l’ha messa a sigillo del suo Pontificato. Questa traccia eterna ci salverà e noi contemplativi dobbiamo indicarla agli uomini. Un giorno altri agnostici come Etty, o cristiani dal battesimo sgualcito, ne avranno bisogno. Benedetto XVI, chiude il suo Pontificato con l’«enciclica» migliore: la sua vita che sale sul monte per continuare a lottare con la preghiera.