Opinioni

Con i ragazzi e per noi stessi. Il 25 Aprile e gli occhi che ci servono

Eraldo Affinati giovedì 25 aprile 2019

Ho sempre considerato il 25 Aprile, non solo come nipote di un partigiano fucilato dai nazisti ma in quanto cittadino italiano, la Festa più importante della Repubblica: continuare a dividersi strumentalmente su questa data significa minare le ragioni che ci fanno vivere insieme. È stato infatti soltanto con la drammatica vittoria, nella primavera del 1945, sui nazifascisti che abbiamo potuto tornare a guardarci allo specchio senza vergogna: fino a pochi anni prima, il bieco totalitarismo, la sciagurata alleanza che Mussolini aveva stretto con Hitler e le infami leggi antisemite, ce lo avevano impedito. Senza la Resistenza, dobbiamo ribadirlo, sarebbe stato impossibile per noi voltare pagina. Lo avremmo fatto ugualmente, sì, ma privi di vero sostegno. Gli stessi padri costituenti non avrebbero potuto maturare la convinzione, né trovare la legittimità, per dettare gli articoli che ancora adesso illustrano la nuova civiltà democratica.

Diciamo la verità: anche in considerazione del comportamento prima remissivo, poi manchevole, infine ignavo, tenuto dalla Monarchia, persino i legami col Risorgimento sarebbero rimasti recisi per sempre e non avremmo potuto evitare la tragica mortificazione a cui andarono incontro i tedeschi: le macerie di Berlino ebbero un tratto infernale che per fortuna nessuna delle nostre rovine mostrò. Ogni giro di giostra sul calendario dobbiamo quindi ringraziare gli uomini e le donne che settantaquattro anni fa sfilarono per le vie delle città del Nord, guidati dai Comitati di Liberazione Nazionale, annodandosi intorno al collo il fazzoletto tricolore. Il coraggio di quelle persone, provenienti dalla più diversa origine ma uniti dalla medesima determinazione antifascista, non dovrebbe venire né profanato dai revisionisti, né svilito dalla retorica: dovremmo semplicemente ammettere che senza di loro noi saremmo peggiori di quel che siamo.

«L’unica guerra giusta (se guerra giusta esiste) – cito Don Lorenzo Milani (Lettera ai cappellani militari toscani, 1965) – che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra, è stata la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei contendenti erano, secondo voi, i "ribelli" e quali "i regolari"? È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo per esempio quali sono i "ribelli"?». Rivolgo la stessa domanda a Rachid, uno dei giovani africani ai quali insegniamo la lingua italiana. Guardo i suoi occhi già passati attraverso il trauma bellico e ho la sensazione che il nostro 25 Aprile si trasformi in una maschera planetaria.

Questo rifugiato politico, sopravvissuto a una lotta fratricida fra opposte fazioni che si sta svolgendo da anni nel suo Paese dai contorni non dissimili da quelli che videro contrapposti nelle nostre contrade rossi e neri, non ha avuto dubbi nel rispondermi: i parenti rimasti laggiù, nei villaggi incendiati dalle milizie, continuano a essere sotto il giogo del dittatore locale: se non ti schieri dalla sua parte, non puoi vivere in pace. Proprio come accadeva in Italia durante il ventennio. Purtroppo in molta parte del Continente Nero la democrazia piena e compiuta resta un sogno. Il cammino che noi abbiamo fatto, loro lo devono ancora affrontare.

È questo il motivo per cui molti immigrati possono paradossalmente aiutarci a comprendere la dimensione del privilegio di cui disponiamo. Le carte dei diritti e dei doveri, il rispetto delle donne, la tutela dei minori, la giustizia sociale, il sostegno ai più bisognosi, la sanità pubblica, i servizi essenziali: tutte queste garanzie, fiori all’occhiello delle vecchie nazioni europee, non sono cadute per miracolo dall’albero dei frutti magici, bensì rappresentano l’esito di una lotta antica e dolorosa, prezzo del sangue versato dai nostri predecessori.

Detto ciò, bisogna poi avere la forza di andare oltre. Quando Rachid avrà imparato a pensare e parlare nella nostra lingua, dovrò trovare il modo di leggergli il finale di La casa in collina, il capolavoro di Cesare Pavese, composto solo tre anni dopo la fine del conflitto. È la famosa pagina in cui lo scrittore piemontese, posando lo sguardo sui cadaveri dei repubblichini, afferma: «Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi… Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto assomiglia a chi resta, e gliene chiede ragione». Io voglio credere che Rachid capirebbe le suddette parole meglio di molti altri, infatti una volta mi disse che la giustizia, quella vera, non è di questo mondo. A volte i ragazzi sanno volare più in alto di noi.