Opinioni

Chi non innova si è perduto. La crisi produttiva e sociale d’Italia

Marco Girardo mercoledì 13 marzo 2019

Se n’è così parlato, straparlato e perfino abusato negli ultimi vent’anni, che ci vorrebbe un Raymond Carver per raccontarci di che cosa parliamo quando parliamo d’innovazione. Sembra un totem, ma in Italia resta un tabú. E però, alle modalità con cui sapremo declinare proprio questa parola, innovazione, è legata la permanenza del sistema Paese fra il novero delle economie avanzate. Nonché la stessa sopravvivenza di una classe media sfiancata dagli effetti collaterali della globalizzazione. L’innovazione in senso lato – tecnologica, sociale e culturale – potrebbe essere inoltre un’opzione strategica per provare ad affrontare con una nuova prospettiva il patologico divario Nord-Sud. E, più in generale, quella sindrome da accerchiamento che pare avvizzire il Paese. Una scelta da compiere per tre ragioni almeno, e non tutte strettamente economiche.

In primo luogo perché l’Italia non sa più crescere. O non lo fa più al ritmo degli altri partner europei. Lo si deve soprattutto all’inefficienza della giustizia civile e alle vischiosità burocratiche, un deficit di infrastrutture giuridiche. Ma anche alla carenza di competitività complessiva che ci ha fatto perdere posizioni, dagli anni Novanta, nelle nuove catene globali del valore. Ci sono, certo, una ventina di campioni nazionali e qualche centinaio di medie aziende ancora ben piazzate con il loro indotto, imprese che hanno investito molto in ricerca e sviluppo e ci permettono di restare la seconda potenza manifatturiera d’Europa. Ma è la diminuzione di produttività media e non certo l’ingresso nell’Eurozona, come vorrebbe la mistificazione sovranista, ad aver scandito il declino, traducendosi in perdita di potere d’acquisto per lavoratori e famiglie: un rallentamento di mezzo punto della crescita nel lungo periodo ha del resto conseguenze mortificanti sul tenore di vita. L’Italia nel 2000 aveva un Pil pro capite di molto superiore alla media europea, il 122%. Si è divorata questo vantaggio, anno dopo anno, fino a scendere al 97%. Numeri che spiegano come, quando e perché il famoso ascensore sociale si sia bloccato. Tanto che i figli, oggi, non possono più a sperare di stare meglio dei genitori.

Tra i pochi interventi di politica economica tesi a migliorare la produttività delle imprese – e quindi la loro competitività – c’è sicuramente il pacchetto Industria 4.0. Confermato, anche se limato, dall’ultima Legge di Bilancio. A cui si è aggiunto ora il Fondo da 1 miliardo per l’Innovazione. In entrambi i casi, tuttavia, le risorse sono del tutto insufficienti.

Basti pensare che gli 1,3 miliardi di capitale raccolto in Italia destinato alla nascita delle startup sfigurano rispetto ai 27 del Regno Unito, ai 14 della Germania e persino ai 3,6 della Svizzera. Eppure la scelta strategica degli incentivi fiscali all’innovazione 4.0 un effetto diretto sull’ecosistema imprenditoriale lo ha avuto: nella classifica mondiale 2018 sulla competitività del World Economic Forum l’Italia è salita al ventiduesimo posto (su 140) per innovazione e addirittura al quarto per "distretti imprenditoriali d’eccellenza". E ce ne sono, di filiere di punta, al Nord, al Centro e nel Sud dello Stivale: dal polo farmaceutico del Lazio a quello aeronautico di Caserta, dai sistemi Ict di Catania e Lecce alle manifatture avanzate lombarde, venete ed emiliane. Nei parchi tecnologici e dentro gl’incubatori d’impresa, nelle startup di ogni longitudine si interpreta l’innovazione allo stesso modo. È questo il valore aggiunto in chiave di potenziali politiche economiche: si parla la stessa lingua, si accetta la medesima sfida.

Dalla prima pagina Ecco perché lo 'Stato Innovatore' ( copyright Mariana Mazzucato), provando a ricucire l’Italia con una strategia diversa dalle cattedrali nel deserto stile Termini Imerese, potrebbe sfruttare tale sintonia di fondo e assumere il ruolo del 'risk taker', amante del rischio. Non si tratta di giocare con i social network, sperimentando magari nuove forme di propaganda o addirittura pseudo-democrazia diretta, ma di incoraggiare la ricerca non applicativa più o meno come fa un venture capitalistpaziente. Occasione da non perdere, proprio adesso, visto che le forme di riarticolazione e gli elementi di nuova coesione del tessuto sociale e produttivo emerse dalla crisi epocale del 2008 - lo spiegano bene Filippo Barbera e Tania Parisi in una studio dedicato agli 'Innovatori sociali' - sono esattamente l’economia collaborativa, le imprese sociali, le cooperative di comunità e le nuove manifatture.

E gli agenti del cambiamento sono giovani-adulti esperti nell’utilizzo delle tecnologie digitali per i quali i doveri civici, la fiducia e il capitale culturale rappresentano valori qualificanti. Ecco perché l’innovazione potrebbe essere persino un antidoto al ripiegamento del Paese e alla retorica della chiusura e dei muri, delle zone protette, delle linee di demarcazione tra 'noi e loro', tutte categorie di pensiero che la rivoluzione informatica, sin dalle origini, si è proposta di rovesciare. Prima di rivelarsi un volano economico, cioè, l’innovazione, quella vera, è un formidabile propulsore sociale.