Opinioni

La nuova traduzione. «Cambia» il Padre Nostro, più fedele all'originale

Riccardo Maccioni martedì 13 novembre 2018

Se c’è una verità di cui nessun credente può dubitare è che il Padre celeste non ci abbandona mai. Tantomeno nei momenti di difficoltà, nella prova, quando la libertà delle creature deve fare i conti con i limiti della condizione umana. Il suo stile è la misericordia, il suo cuore si apre come una casa per i figli, la sua volontà rende felice chi lo segue con animo sincero. Per questo stona un po’ che la preghiera per eccellenza, l’invocazione che tutti conoscono, il Padre nostro parli, in italiano, di un Dio che «ci induce in tentazione». Un problema di traduzione certo, che nella logica della consuetudine rischia però di essere scambiato per sostanza. O, peggio, banalizzato come il ritornello di una canzone imparata da piccoli e che nemmeno ci interroga più. Proprio per questo diventa difficile cambiarla, superare la scorza del "si è sempre detto così", andare più a fondo nella verità per consentire a tutti di gustarne il dolcissimo sapore.

Di qui l’importanza, ma anche la delicatezza, della scelta fatta dai vescovi italiani di mettere al centro di un’Assemblea generale straordinaria apertasi ieri a Roma, la pubblicazione della nuova edizione del Messale, il "libro", ma è molto di più, che contiene i vari formulari per la celebrazione dell’Eucaristia «fonte e culmine di tutta la vita cristiana». Un passo, un tassello nella direzione dell’approfondimento, del rilancio della riforma liturgica, che nella votazione finale prevede appunto una scelta definitiva sulla versione italiana del latino et ne nos inducas in tentationem.

Una decisione da assumere con «sapienza teologica» e «saggezza pastorale» ha anticipato ieri il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, consapevole che il Padre nostro non è una supplica tra le tante ma la preghiera per eccellenza, tante volte la melodia dell’anima che desidera aprirsi al Signore. La supplica che richiama alla dimensione della comunità, l’invocazione che sottolinea la responsabilità dei figli, l’omaggio alla grandezza di Dio il cui amore è porta spalancata su un infinito presente di libertà.

In Francia, dall’Avvento dell’anno scorso il testo è stato cambiato in «non lasciarci entrare nella tentazione» suscitando un po’ di perplessità, specie nella gente semplice restìa a ogni cambiamento, figuriamoci di un testo imparato da bambini. Lo scopriamo noi stessi di fronte alle diverse velocità dei cori che accompagnano il Credo durante la Messa o la recita del Rosario nel mese di maggio quando all’Ave Maria non sai se dire benedetto il frutto "del seno tuo" o "del tuo seno". Minuzie si dirà, ed è vero, ma che chiariscono bene le difficoltà che ritmeranno l’interiorizzazione della scelta adottata dai pastori della Chiesa italiana. Un cammino di riforma iniziato negli anni 80 del secolo scorso, con la decisione di rivedere la traduzione del 1971 ripubblicata tre anni dopo. E di cui la nuova edizione del Messale rappresenta l’esito conclusivo.

Un percorso che, mentre documenta la provvisorietà delle traduzioni nell’orizzonte di una maggiore fedeltà all’originale, si propone di andare oltre il significato del verbo "indurre", che dice altro rispetto al latino "inducere" o al greco "eisferein". L’italiano porta infatti con sé l’elemento delle costrizione assente nelle altre due versioni, che sono invece concessive e corrispondono, banalizzando, al nostro "non lasciare entrare". Si tratta cioè di passare dall’induzione, dalla messa alla prova, alla vicinanza, al sostegno nelle difficoltà, al «non abbandonarci» quando si è nella tentazione, per usare l’immagine già recepita nella nuova traduzione della Bibbia Cei e nel Lezionario. «D’altronde può Dio Padre ingannare i suoi figli – si è chiesto il Papa lo scorso 11 agosto parlando ai giovani italiani –, può "indurci" in tentazione? Certo che no».

Perché un padre, anche nella vita di tutti i giorni, non mi mette in difficoltà per vedere come reagisco. Non crea trabocchetti per scoprire se me la cavo da solo. Semmai cerca di trattenermi dal fare il male, di liberarmi dai cattivi pensieri. E se cado mi aiuta a rialzarmi subito. Un messaggio d’amore, un vocabolario di misericordia che diventeranno parte integrante del nostro modo di rapportarsi a Dio. Nella vita quotidiana, come nella profondità, nella ricchezza dei gesti della liturgia.

Che non va ridotta a un insieme di espressioni e formule ma, per citare la bellissima definizione del Catechismo, è «culto divino, annuncio del Vangelo e carità in azione». È Dio stesso che agisce perché noi possiamo essere trasformati in Lui.