Opinioni

Chi compra e chi non vede. Figlie e figli venuti tra noi, fatti schiavi

Marina Corradi martedì 31 luglio 2018

«È stata mia madre a decidere che sarei dovuta partire per l’Europa. Io neanche sapevo cosa fosse, l’Europa. Inizialmente mi sono rifiutata. Eppure, poi ho ceduto e ho cominciato a credere che avrei potuto alleviare le difficoltà economiche della mia famiglia. Per cui ho detto sì, e ho accettato di raggiungere una mia zia in Germania». Le storie di Blessing, Harmony, Alina, sedicenni nigeriane o rumene approdate nel nostro Paese, destinate al mercato della prostituzione oppure disperatamente in cerca di un passaggio verso il Nord Europa, spuntano fra le righe del rapporto di Save the Children sulla schiavitù minorile in Italia nel 2018, di cui Avvenire ha riferito sabato, nell’imminenza della Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani che ricorreva ieri.

Un dramma, ha affermato con nettezza il presidente Mattarella, che esige che rifuggiamo «la tentazione di guardare altrove». E papa Francesco, accorato, domenica all’Angelus: «Questa piaga riduce in schiavitù molti uomini, donne e bambini», e con il gesto eloquente dell’indice puntato a terra ha aggiunto: «Anche qui, a Roma».

Anche qui, in mezzo a noi. Quella che non sapeva nemmeno cosa fosse l’Europa si chiama Blessing, è nigeriana. Dopo l’interminabile viaggio fino alle soglie del Sahara, a Tripoli è costretta, per vivere, a prostituirsi «per otto lunghissimi mesi», testimonia. Riesce a traversare il Mediterraneo, ad arrivare viva in Italia.

Dalla Germania la zia fa pressioni perché le restituisca il denaro speso per pagarle il viaggio. Blessing si ritrova sola alla Stazione Centrale di Milano, e poi al Brennero, ma passare la frontiera è impossibile. Un connazionale la ospita – in cambio di sesso. Fino a quando la ragazzina trova qualcuno che le dice: guarda che qui, in Italia, una come te può chiedere aiuto. Blessing è stata fortunata, ma è soltanto una fra migliaia di minorenni, femmine e maschi, stranieri, che per qualche mese o anno passano dall’Italia – dalle nostre città, per le strade in cui viviamo. Hanno la medesima età delle nostre figlie e dei nostri figli, e, almeno in principio, le stesse speranze: una casa, un lavoro, una famiglia.

Attraversano come meteore il nostro mondo, ai nostri occhi quasi invisibili, se non lungo qualche viale di periferia, la notte. O, le romene, stipate in squallidi appartamenti d’affitto, sorvegliate da avidi “fidanzati”. Alina: «Botte, urla. Lui scaricava su di me la sua rabbia tutti i giorni. Io intanto lavoravo in strada tutti i giorni dalle 10 alle 19, portando a casa circa 5.000 euro al mese». Così abituate a essere picchiate e ricattate da ritenerlo “normale”. Da non capire nemmeno di essere diventate schiave. Però i clienti la notte, sui viali, sono italiani. Quaranta euro per una che è coetanea delle loro figlie liceali. Di quelle figlie che magari, fra sé, chiamano ancora «bambine». Clienti che poi magari rincasano senza far rumore, per non svegliare la famiglia. Quanti anni avrà avuto quella adolescente sul viale? Chi lo sa, che importa.

A Ventimiglia, fra gli stranieri sul greto del fiume Roja o davanti al cimitero, i minorenni in questi mesi erano molti. Varcare la frontiera in treno è quasi impossibile. Ci vuole un passeur, uno che ti porti di là. Ma il passeur pretende 200 euro. Le giovani nigeriane a offrirsi per poco, a proteggere attente il loro povero gruzzolo. La casa, la madre, i fratelli ormai così lontani. E però bisogna mandare soldi, bisogna aiutare la famiglia, che ha speso tutto per inviare il più forte dei figli in Europa, a tentare la fortuna. Le adolescenti africane e dell’Est allora cercano di non pensare, e dicono sì al nuovo cliente, all’ennesimo stupratore a pagamento. Attorno, la città degli italiani sa, e non dice niente.

Quanto di assurdo c’è in tutto questo. Sembra, davvero, che ormai per noi esistano quelli come noi, e “gli altri”. Due categorie diverse, non ugualmente umane. Quasi come al confine fra gli Usa e il Messico, dove, ha denunciato un’agenzia giornalistica investigativa americana, nei rifugi che accolgono migranti minori ci sono state 125 denunce di abusi sessuali compiuti del personale assistente, negli ultimi cinque anni. Senza che niente ne trapelasse sui media.

Come se quelli non fossero bambini – bambini davvero, come i figli degli americani. I frammenti delle storie raccolti da Save the Children, quando li scorri, per un istante bucano questa sorta di schizofrenia, per cui non sai vedere nei migranti degli uomini come te. Leggi di Mamadou, morto per sfinimento dopo aver vagato, solo, per tre giorni sulle montagne, al Monginevro, per sfuggire alla polizia. Di Abbas, dal Gambia, diciannovenne diretto oltre il Brennero, travolto da un treno sui binari di Bolzano.

Del giovane sconosciuto partito da Verona e morto folgorato sul tetto di un merci diretto in Austria. E di quell’altro, il cui corpo è riemerso dalle nevi al disgelo, a maggio, su un sentiero che dall’alta Val di Susa conduce in Francia. Non aveva documenti addosso. A casa, non sapranno più nulla di lui – il figlio più forte, in cui speravano tanto, inviato in Occidente. Quasi un milite ignoto caduto in questa guerra oscura combattuta nel Sahara, o in alto mare, o sui nostri valichi, e che per lo più non vediamo. Mentre le Aline, le Blessing, i Mamadou ci sfiorano nelle nostre strade, ma noi non li riconosciamo.