Opinioni

Le mosse della speculazione e le divergenze tra i Paesi dell'Unione. Piccole crepe nella diga Ue. Non minimizzare il caso irlandese

Giorgio Ferrari domenica 14 novembre 2010
Ma davvero esiste un rischio Irlanda, capace di contagiare e mettere in crisi l’intera area dell’euro, dalle febbricitanti economie greca, spagnola e portoghese fino a lambire la ben più solida ma non del tutto immune economia italiana, che solo due giorni vedeva salire il differenziale fra il rendimento dei nostri Btp e i bund della ricca Germania a 164 punti? Davvero le reti di protezione, a cominciare da quell’Esf (European Stability Fund) varato nel maggio scorso per fronteggiare la crisi finanziaria di Atene, nulla possono di fronte al rischio di default di Dublino?La risposta, purtroppo, è ambigua. Formalmente l’Irlanda – non avendo obbligazioni in scadenza – non ha problemi di cassa fino al giugno del 2011 e dunque non corre un rischio reale di default, ovvero di bancarotta dello Stato; e ha ragione il direttore del Fondo monetario internazionale Strauss-Kahn quando afferma che il caso irlandese è molto diverso da quello greco. Tuttavia, nonostante il pericolo di insolvenza al momento sia inconsistente, su Dublino grava un rischio ben più insidioso, quello proveniente dalle banche. Nessuno sa davvero calcolare l’entità della loro esposizione, ma basti solo pensare che la Banca centrale irlandese ammette che dai 50 miliardi di euro stimati a settembre quale lotto minimo per salvare dal collasso gli istituti di credito dell’isola (che sostanzialmente appartengono tutti allo Stato) ora siamo giunti a 85 miliardi, come dire il 55% del Pil dell’intera nazione.C’è chi usa ricordare che quel Pil irlandese concorre per il solo 3% alla ricchezza dell’intera Unione europea, così come quello greco raggiunge a malapena il 2%. Ma non è il caso di minimizzare: piccole crepe nella grande diga europea possono solo allargarsi fino a risultati che preferiamo non immaginare. Ma come siamo giunti a questo scenario? Non era forse l’Irlanda una delle tigri d’Europa, terra di defiscalizzazione capace di attrarre imprese e finanza da tutto il mondo per la snellezza della sua burocrazia e la convenienza del suo generoso sistema impositivo? Com’è finita l’isola di Yeats, di Joyce, di Jonathan Swift a fare da quarta gamba a quel crudele acronimo – Pigs, ovvero: maiali – che i sussiegosi Paesi nordici le assegnano in compagnia di Portogallo, Spagna e Grecia, ad indicare le nazioni europee a maggiore rischio di insolvenza?Le ragioni sono più d’una, ma la principale potremmo definirla la "sindrome iberica": drogata da un benessere derivante essenzialmente dal boom edilizio, l’Irlanda – un tempo parente povero dell’Unione – scopriva di colpo un desiderio di benessere forsennato che sembrava alla portata di tutti, alimentato soprattutto dalla facilità con cui le banche concedevano prestiti senza vere garanzie. Esattamente come in Spagna, ma anche come nell’America negli anni precedenti la crisi dei mutui subprime. Il resto è storia di ordinario sfacelo: come negli Stati Uniti, come a Madrid, la marea di insolvenze nei prestiti ha messo in ginocchio in Irlanda finanza ed economia reale.A questo quadro già di per sé poco incoraggiante si assomma il deprecabile lavorio della speculazione internazionale, che annusando l’aria di difficoltà finanziarie alimenta e asseconda la tendenza al ribasso. Tuttavia anch’essa, a suo modo, corre un rischio, quello che gli anglosassoni chiamano self fulfilling profecies, ovvero profezie che si autorealizzano: puntando alla bancarotta di una nazione, gli speculatori finiscono con il provocarla davvero, venendone essi stessi travolti. Il ricorso alla Ue a questo punto sembra quasi inevitabile.Ma cosa farà a questo punto l’Europa? Correrà in soccorso dell’Irlanda perché non affondi l’intera barca dell’eurozona o lesinerà gli aiuti in ossequio al rigore che Angela Merkel invoca e ostenta nei confronti delle disgrazie altrui? Se fosse qui fra noi l’arguto Swift, forse riscriverebbe il suo fortunato pamphlet Modesta proposta, rivolgendosi all’Europa perché impari una buona volta – nei momenti che contano, almeno – a trovare una voce unitaria. Cosa che, ahinoi, troppo spesso non accade.