Opinioni

coltivare e custodire. Carestie e questue. Una storia di montagna nuda e cruda

di Sandro Lagomarsini martedì 10 maggio 2016
Q ualche lettore si chiede se l’immagine delle comunità di montagna che emerge dai nostri interventi non sia troppo idealizzata. Il dubbio non è del tutto infondato. Accade infatti che, nella ricostruzione della propria storia, gli attuali eredi delle antiche comunità tendano a nascondere – quasi senza accorgersene – gli aspetti del passato di cui sono meno orgogliosi. Riproponiamo allora l’immagine corretta da ricerche accurate. In un quadro sociale di piccoli proprietari, qualche mezzadro e isolate famiglie di braccianti, le terre comuni e lo spirito di solidarietà riuscivano normalmente a soddisfare i bisogni primari. Bastava però una carestia, causata da condizioni stagionali avverse, a mettere in crisi il sistema. Durante la carestia del 1810, ad esempio, sull’Appennino ligure ci fu un accaparramento di terre: una casa con boschi e terreni passò di mano in cambio di trentadue chilogrammi di grano. In simili evenienze non bastavano né l’uso assennato delle risorse né il ricorso a coltivazioni di emergenza come la veccia. Il mese più critico era maggio. Essendo in esaurimento le scorte alimentari e lontani (o insicuri) i nuovi raccolti, non restava che alleggerire la famiglia di qualche bocca. È almeno dal Cinquecento che i bambini vengono 'affittati'. Le leggi permettono l’affidamento dei piccoli per le attività della campagna (pascolo soprattutto), mentre viene perseguito lo sfruttamento dei bambini per l’accattonaggio. Una denuncia del 1595, probabilmente scritta da un parroco, sottolinea che questo avviene anche quando non c’è una emergenza alimentare. Qualche sfruttatore arriva a provocare – con erbe velenose – irritazioni alla faccia e alle braccia dei piccoli perché suscitino maggiore compassione. Col tempo i più poveri organizzano in proprio le attività ambulanti: commerciano piccoli oggetti di artigianato o si esibiscono come suonatori e giocolieri. Alcune volte nasce una vera e propria organizzazione, che coinvolge l’intera comunità. È il caso di Sopralacroce, un complesso di piccoli abitati posti su pendici ripidissime nell’entroterra di Chiavari. L’acqua che scende dalla montagna irriga, con un sofisticato sistema di distribuzione, gli esili terrazzamenti costruiti sulla roccia. Ma questo non assicura la sopravvivenza. Ai primi di maggio l’attività agricola viene lasciata alle donne, mentre gli uomini si dirigono a nord. Divisi in squadre, percorrono i territori europei idealmente disposti a scacchiera; gli itinerari cambiano periodicamente per non battere troppo spesso le stesse zone; le diverse squadre, attente a non sovrapporsi, convergono ad Amburgo- Altona e lì si scambiano informazioni per il viaggio di ritorno. Alcuni hanno venduto immagini religiose nelle aree cattoliche e giocattoli in quelle protestanti, ma altri, muniti di autorizzazioni non sempre autentiche, hanno questuato per costruire una chiesa nel proprio abitato, trattenendo una parte del denaro. Il fenomeno è vistoso e le autorità della Repubblica ligure, considerandolo un traffico disonorevole, intervengono con durezza. Nel 1712 tutta la popolazione di Sopralacroce viene deportata in Corsica. La nave che trasporta i bagagli affonda e le famiglie, in condizioni miserevoli, devono affrontare l’ostilità (e le fucilate) dei pastori locali. Quando, due anni dopo, un ispettore viene inviato nell’isola, la comunità in esilio è fatta solo di donne e bambini: gli uomini hanno ripreso le loro attività girovaghe, le uniche in grado di assicurare un risultato economico. Chi legge i documenti di questa vicenda non può fare a meno di domandarsi: chi ha veramente offeso, se non macchiato, l’onore di Sopralacroce? © RIPRODUZIONE RISERVATA