Opinioni

In trent'anni gli stranieri sono passati da dieci a mille. A scapito dei nostri giovani. Non è un calcio per italiani

Umberto Folena venerdì 20 agosto 2010
Dieci, cento, mille. Trent’anni fa gli stranieri del nostro campionato di calcio si contavano sulle dita di una mano. Oggi potrebbero sbarcare a Marsala, il numero è quello giusto. Dieci per cento mille. Tanto si sono moltiplicati i pedatori impegnati nei nostri campionati. Non è un record. Ne hanno di più, in percentuale, inglesi e tedeschi. Ne hanno di meno spagnoli e francesi. C’è una squadra in Italia, la più forte da anni, che può giocare senza neppure un italiano in campo. È perfino diventata campione d’Europa. Un italiano giovanissimo e talentuoso l’aveva: l’ha venduto in Inghilterra. La squadra è l’Inter e il calciatore Balotelli. Dovendo cambiare allenatore, essendocene centinaia di italiani disoccupati, è stato ingaggiato uno spagnolo da Liverpool.È bene, è male? Domanda irrisoria perché è così e basta, i calciatori sono lavoratori e i lavoratori lavorano dove gli pare. Se un presidente volesse creare una squadra composta di soli lussemburghesi, potrebbe. Non sarebbe una cattiva idea: almeno in campo si capirebbero tra di loro, e gli avversari non ci capirebbero niente.Domanda irrisoria, dunque. Ma nessuno ci leva dalla testa che qualcosa non funziona. Per tanti motivi. Le risorse: il denaro non è infinito e posso investirlo nei settori giovanili, cercando e "costruendo" giovani italiani (come fa il Barcellona con la mitica "cantera") oppure nell’ingaggiare giocatori già bell’e fatti in Sudamerica, in Africa o nell’Est europeo. Poi il ruolo sociale dello sport: il calcio, anche se troppi addetti ai lavori ben pasciuti rideranno a crepapelle, non è soltanto business, non è soltanto mercato. È uno sport. Anzi un "giuoco". La sua popolarità e diffusione sono massime. Migliaia di bambini e ragazzi frequentano scuole calcio e squadre di quartiere. Passano accanto agli allenatori perfino più tempo di quanto ne passino con i genitori. Il calcio ha un importante ruolo sociale. È centrale nell’educazione della gioventù. Sottrarre energie in questo campo è intrinsecamente sbagliato perché ci impoverisce tutti.Mille calciatori stranieri, dalla A fin giù alla Lega Pro fino ai dilettanti. Tutti campioni dai quali i nostri giovani possono apprendere e crescere? Magari. Molto spesso l’unica loro qualità è di costare poco ed essere già pronti. Oppure essere nelle mani di procuratori più abili di un prestigiatore, capace di trasformare un carciofo in un mazzo di rose. Mille sono troppi, tolgono spazio ai nostri, succhiano denaro fatalmente sottratto a settori giovanili in gran parte smantellati, e alla preparazione di allenatori che troppo spesso sbattono in campo il ragazzone alto grosso e bolso piuttosto che il magrolino talentuoso: il primo gli fa vincere la partita e salvare lo stipendio.Ridurli? L’unica possibilità sarebbe un gentleman agreement, un patto tra gentiluomini tra presidenti. Gentiluomini? È il sogno di una notte di mezza estate buono per la pagina 2 di un quotidiano. Ma poiché un tifoso è tale perché capace di sognare, nessuno ci vieta di immaginare un accordo per cui in campo gli italiani devono essere almeno la metà più uno. Ma è un’idea troppo sensata perché l’insensato mondo del calcio possa prenderla in considerazione.