Opinioni

Un uomo di nome Giobbe / 8. La rivoluzione dell'ascolto

Luigino Bruni sabato 2 maggio 2015
Nelle persone, nelle comunità, nelle civiltà, nelle fedi, esiste un ciclo che alterna fede e ideologia, religione e idolatria. All’inizio del cammino si è sedotti da una voce che ci chiama: si crede, si parte. Ma dopo aver percorso un certo tratto di strada, a volte molto lungo, ci si ritrova quasi sempre dentro una ideologia, se non una idolatria. È un esito molto probabile, forse inevitabile, perché l’ideologia e l’idolatria sono prodotti naturali delle fedi e delle religioni. La lettura onesta e nuda del libro di Giobbe – non a caso posto al centro di una Bibbia che ha nell’idolatria il suo principale nemico – è una potente cura di queste gravi malattie delle religioni, perché costringe ad abbandonare le risposte che abbiamo maturato e conquistato a fatica per buona parte di vita, per tornare, umili e veri, alle prime domande della giovinezza. Stiamo arrivando nel centro del libro di Giobbe, nel mezzo del suo guado notturno (21 capitoli su 42). Avanzando nella lettura ci rendiamo sempre più conto che non possediamo le categorie culturali essenziali per capire veramente la proposta radicale e stupefacente dell’autore di questo grande libro. Rischiamo di banalizzare i dialoghi tra Giobbe e i suoi “amici”, perché troppo ampio ci appare il divario tra la grandezza delle parole di Giobbe e quelle dei suoi interlocutori. Ci sfugge, così, che le posizioni degli “amici” erano espressione della teologia migliore del loro tempo, come sapevano molto bene l’autore del libro e i suoi primi lettori-ascoltatori. Diversamente da quanto accade oggi alla maggior parte di noi, il primo processo di identificazione che avveniva in chi ascoltava il poema di Giobbe era con le teologie degli amici, non con la vittima. L’eretico era l’uomo sul letame. Il grande e rivoluzionario scopo del libro era allora condurre gli ascoltatori ad abbandonare, o almeno provare a mettere profondamente in crisi, la loro teologia e la loro religione, e iniziare a camminare verso una nuova idea di Dio e di giustizia. Per noi, i lettori di oggi, che conosciamo l’intera Bibbia e magari la leggiamo dalla prospettiva dei Vangeli, di Paolo, dell’Umanesimo e della Modernità, è quasi impossibile non perdere la tensione drammatica del racconto. Per entrare nel cuore di questo libro – ed è giunto il momento di farlo – dovremmo almeno tentare una operazione difficile e decisiva: non identificarci troppo velocemente con Giobbe senza aver prima sentito sulla nostra carne l’insufficienza delle nostre risposte alle domande che oggi ci giungono dai Giobbe che abitano le periferie della nostra storia. A Giobbe si deve approdare dopo aver capito che le nostre risposte sono radicalmente inadeguate che continuano a “tormentare” le vittime del nostro tempo. Non possiamo capire le domande di Giobbe senza attraversare la povertà delle nostre risposte. Gli amici di Giobbe siamo noi. Qui e oggi. E Giobbe è sempre lontano e dimenticato sui mucchi di letame che continuiamo a produrre. Giunti alla metà del libro, la tesi dei tre interlocutori di Giobbe diventa sempre più essenziale e sintetica. Sofar gli dice: «Non sai che è così da sempre, da quando posero l'uomo sulla terra, che il giubilo dei malvagi è effimero, e il gaudio dell'empio dura un attimo?» (Giobbe 20,4-5). Gli viene ricordata la sola spiegazione possibile della sua condizione di sventurato: la logica retributiva. Se sei caduto in disgrazia devi essere colpevole, devi essere malvagio. Giobbe non ha mai ceduto a questa spiegazione, perché contraria alla sua verità di giusto e di sventurato.Nel cuore del suo dialogo con Dio e con gli uomini, Giobbe prende di petto questa teologia “economica” del suo tempo. Per smontarla chiede aiuto alla storia, ai “viaggiatori” della terra che conoscono veramente la vita e gli uomini. Prima però invoca l’ascolto: «Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date». (Giobbe 21,2). Sa di essere vicino al culmine del suo processo a Dio e alla religione, e per questo chiede ai suoi interlocutori di mettersi la  «mano sulla bocca» (21,5), per prepararsi allo stupore e allo scandalo che le sue parole estreme provocheranno in loro – non è da escludere che il redattore di questi capitoli centrali abbia emendato e censurato alcune parti del libro, dove più estreme e scandalose dovevano essere le domande di Giobbe. Ma Sofar, Elifaz e Bildad non furono capaci di ascoltarlo, continuando a non tacere, a parlare, ad accusare. L’ascolto vero e profondo è amore, agape, richiede benevolenza, fiducia, amicizia, ingredienti assenti nei tre “amici”. Giobbe lo sa, ma chiede ugualmente ascolto perché i suoi veri ascoltatori siamo noi. Siamo noi gli invitati a tacere, ad ascoltare, a metterci la mano sulla bocca. Il primo segnale che la fede è già ideologia è il non essere più capaci di tacere di fronte al dolore del mondo. E così, dopo aver chiamato in causa la terra, e dopo aver desiderato di affidare il suo grido infinito alla pietas delle future generazioni incidendolo sulla roccia, per confutare i suoi “amici” chiama in causa l’evidenza storica, la vita della gente reale non quella immaginata da chi ragiona su Dio senza conoscere e ascoltare gli uomini: «Perché non avete chiesto a chi ha viaggiato e non avete considerato attentamente le loro prove?» (21,29). È sulla terra di tutti che Giobbe trova le prove per mostrare che le teologie del suo tempo sono false: «Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi?… Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. Il loro toro monta senza mai fallire, la loro vacca figlia senza abortire… Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli nel regno dei morti» (21,7-13). È la vita vera la base della non verità dei teoremi dei suoi amici. Occorre conoscerla, vederla, e imparare una religione e una teologia più vere. Ieri, oggi, sempre. È fin troppo semplice essere dalla parte di Giobbe e dimostrare, con la sua evidenza e con la nostra, che il mondo non risponde alla troppo semplice logica retributiva. Sono troppi i malvagi che accumulano molte ricchezze inique e poi le lasciano ai loro figli, e sono ancora di più i giusti impoveriti dalla sventura. Ma siamo sicuri che Giobbe abbia ragione? È vero che non c’è nessun nesso tra la nostra condotta etica e la felicità nostra e quella dei nostri figli? Non è questo il piano sul quale Giobbe vuole condurre il suo dialogo con noi. Lui sa che se interroghiamo veramente i viaggiatori e gli osservatori del mondo questi ci raccontano di malvagi felici, di malvagi infelici, di giusti felici, di giusti infelici. A Giobbe non interessa sostenere la tesi opposta a quella dei suoi “amici”, perché sa che è altrettanto fragile. La sua argomentazione è diversa e molto più interessante: punire i malvagi e ricompensare i giusti su questa terra non può essere il “mestiere” di Dio. Sarebbe un dio troppo banale, sarebbe solo un idolo, perché costruito a nostra immagine e somiglianza. Il mondo non è lasciato al caso, la Provvidenza deve essere all’opera, Giobbe non lo nega; ma ci invita a cercare registri diversi da quelli della teologia del suo tempo (e del nostro). Giobbe cerca un altro Dio, e lo cerca anche per difenderlo dalla verità della storia. Giobbe ci ricorda allora che chi crede in Dio e lo ama non deve raccontare teologie che non reggono di fronte all’evidenza storica. Eppure sono molti, troppi, i nostri racconti su Dio che non fanno altro che associarlo alla nostra banalità, che vengono necessariamente smentiti dalla verità delle domande di Giobbe e dei racconti dei viaggiatori. Giobbe chiede solo più silenzio, più mani sulla bocca, per lasciarsi stupire dalla verità che accade nella storia che non può essere contro la verità di Dio. Il suo è un appello a una religione che sappia dar conto delle gioie e dei dolori veri della gente reale. Il resto è solo vanità e falsa consolazione:  «E voi vorreste consolarmi con argomenti vani! Nelle vostre risposte non c'è altro che inganno» (21,34). Saper tacere e trattenere in gola le nostre risposte certe per ascoltare le grida dei Giobbe del proprio tempo è stato importante in ogni epoca, ma è stato ed è essenziale nei grandi momenti di passaggio, quando le risposte ufficiali delle religioni, delle culture e delle filosofie non bastano più per rispondere alle domande più difficili dei giusti e delle vittime innocenti, quando le spiegazioni convenzionali del dolore, della morte, della fede, non appagano più Giobbe. È soprattutto in questi momenti che occorre mettersi all’ascolto profondo dell’uomo di Uz, e lasciarsi convertire. Perché se non lo facciamo le religioni restano bloccate dentro le ideologie, gli idoli prendono il posto della fede. Anche oggi Giobbe non capisce più le nostre risposte, non lo consolano, lo tormentano. E ci invita almeno a tacere, ad ascoltarlo. Ci sono troppe grida anelanti un Dio diverso che si alzano verso il cielo, che vengono ammutite dalla nostre risposte troppo semplici, poco solidali, lontane dalla gente, che non sanno ascoltare i viaggiatori del nostro tempo. La Bibbia fu capace di ascoltare l’urlo scandaloso e scomodo di Giobbe, lo incise per sempre sulla sua roccia, e così gli diede la dignità più grande. Saremo noi capaci oggi di fare altrettanto con le grida e le domande che mandano in crisi le nostre teologie? Sapremo riscrivere nuovi poemi ascoltando la voce delle nostre vittime? O continueremo a indossare nel dramma del vivere le maschere degli amici di Giobbe? Le nuove primavere delle religioni e delle civiltà cominciano quando, gli amici di Giobbe, imparano a tacere, abbandonano le vecchie e inadeguate certezze, e si mettono ad ascoltare le grida delle vittime, dei lontani, dei poveri, seduti sugli stessi mucchi di letame. l.bruni@lumsa.it