Opinioni

Profezia è storia /9. L'unica virtù necessaria

Luigino Bruni sabato 27 luglio 2019

Qualcuno mi disse: non ti sei destato alla veglia ma a un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato. Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino
Jorge Luis Borges, La scrittura del dio

Nella vita le motivazioni contano, qualche volta contano molto. Ci spiegano i tradimenti, le fedeltà e le infedeltà, ne aumentano o ne riducono le responsabilità. È vero, lo sappiamo e lo reimpariamo ogni giorno sulla nostra pelle e su quella degli altri. Ma in alcuni eventi veramente decisivi i comportamenti contano più delle loro motivazioni. Posso darti e darmi tutte le ragioni perché quel giorno ho deciso di ascoltare una voce che mi ha portato lontano da te, ma ciò che veramente conta è che sono uscito di casa e non sono tornato più. Questa verità antropologica diventa una verità assoluta nelle vocazioni profetiche. La parabola del profeta disobbediente e del profeta bugiardo ce lo dice con rara bellezza.

Siamo arrivati a un evento centrale della storia d’Israele. Il Regno di Davide e Salomone si divide, la terra della promessa si squarcia in due. Le tribù del Nord (Israele) si separano da quella di Giuda. Il Nord del Paese segue un nuovo re, Geroboamo, mentre il Sud resta con Roboamo, figlio di Salomone. L’inizio dello scisma è segnato dall’azione di un profeta, di nome Semaia – i nomi dei profeti vanno sempre detti, perché pronunciarli è benedizione: «La parola di Dio fu rivolta a Semaia, uomo di Dio: "Riferisci a Roboamo... Così dice il Signore: non salite a combattere contro i vostri fratelli israeliti"... Ascoltarono la parola del Signore e tornarono indietro» (1 Re 12,22-24). I profeti continuano a salvare il popolo dai fratricidi. E sono due profeti i protagonisti di uno dei testi più misteriosi della Bibbia.

«Un uomo di Dio, per comando del Signore, si portò da Giuda a Betel, mentre Geroboamo stava presso l’altare per offrire incenso» (13,1). Un profeta ("un uomo di Dio"), del Sud, si reca, «per comando di YHWH» nel Nord, per trasmettere a Geroboamo una parola di YHWH sulla futura distruzione dell’altare di Betel (13,2) e per compiere un segno: «Questo è il segno che il Signore parla: ecco, l’altare si spezzerà e sarà sparsa la cenere che vi è sopra» (13,3). Geroboamo alza la mano e prova a fermarlo (13,4), ma la sua mano divenne inaridita. Il re prega il profeta che la sua mano torni sana, e lo ottiene. Quindi «all’uomo di Dio il re disse: "Vieni a casa con me per ristorarti; ti darò un regalo"» (13,7). Il profeta risponde: «Anche se mi darai metà della tua casa, non verrò con te e non mangerò pane né berrò acqua in questo luogo, perché così mi è stato ordinato per comando del Signore: "Non mangerai pane e non berrai acqua, né tornerai per la strada percorsa nell’andata"» (13,8-9). Si chiude la prima scena: il profeta rifiuta l’offerta del dono (i doni dei potenti sono sempre pericolosi), e svela l’ordine che aveva ricevuto da YHWH. E obbedisce al "comando".

Seconda scena. «Ora abitava a Betel un vecchio profeta, al quale i figli andarono a raccontare quanto aveva fatto quel giorno l’uomo di Dio a Betel» (13,11). Il vecchio profeta di Betel andò incontro al profeta di Giuda. Gli disse: «"Sei tu l’uomo di Dio venuto da Giuda?". Rispose: "Sono io"» (13,14). Il vecchio profeta gli fa la stessa offerta del re: «"Vieni a casa con me per mangiare del pane"» (13,15). E ottiene la stessa risposta: «"Non posso tornare con te né venire con te; non mangerò pane e non berrò acqua in questo luogo, perché mi fu rivolta una parola per ordine del Signore: "Là non mangerai pane e non berrai acqua, né ritornerai per la strada percorsa all’andata"» (13,16-17). Fin qui la storia ha una sua logica: il profeta di Giuda sta svolgendo la sua missione, fedele al comando.

Ma ecco la svolta narrativa: «Quegli disse: "Anche io sono profeta come te; ora un angelo mi ha detto per ordine del Signore: fallo tornare con te nella tua casa, perché mangi pane e beva acqua"». E subito il testo aggiunge: «Egli mentiva a costui». Ma il profeta di Giuda «ritornò con lui, mangiò pane nella sua casa e bevve acqua» (13,18-19). Il vecchio profeta dice una bugia – nella traduzione aramaica della bibbia ebraica (il Targun) il vecchio profeta è costantemente chiamato "bugiardo". Non sappiamo il perché di questa bugia. Il profeta di Giuda credette alla parola del profeta di Betel (13,19) e al nuovo "ordine", e quindi disobbedisce al comando ricevuto da Dio. Questa azione è quanto conta nella storia.
Ma eccoci a una seconda svolta: «Mentre essi stavano seduti a tavola, la parola di YHWH fu rivolta al profeta che aveva fatto tornare indietro l’altro, ed egli gridò all’uomo di Dio che era venuto da Giuda: "Così dice il Signore: poiché ti sei ribellato alla voce del Signore, non hai osservato il comando che ti ha dato il Signore …, il tuo cadavere non entrerà nel sepolcro dei tuoi padri"» (13,20-22). Il profeta bugiardo riceve un autentico oracolo di Dio, che condanna il profeta di Giuda.

E infatti, non appena questi riprende il cammino, il racconto subisce la sua terza torsione: «Egli partì e un leone lo trovò per strada e l’uccise; il suo cadavere rimase steso sulla strada» (13,24). Saputo dell’accaduto, il profeta di Betel disse: «Quello è un uomo di Dio che si è ribellato alla voce del Signore; per questo il Signore l’ha consegnato al leone, che l’ha fatto a pezzi e l’ha fatto morire, secondo la parola che gli aveva detto il Signore» (13,26). Con questa morte il vecchio capisce l’autenticità del profeta disobbediente e anche della sua propria parola, confermata anche dall’innaturale comportamento dell’animale («Il leone non aveva mangiato il cadavere né fatto a pezzi l’asino» 13,28). Un altro episodio biblico dove gli animali diventano alleati di Dio e parlano ai profeti.
Importante è infatti la conclusione che contiene l’ultima sorpresa della storia: «Il profeta prese il cadavere dell’uomo di Dio, lo adagiò sull’asino e lo portò indietro ... Dopo averlo sepolto, disse ai figli: "Alla mia morte ... porrete le mie ossa vicino alle sue». E conclude: «Poiché certo si avvererà la parola che egli gridò, per ordine del Signore, contro l’altare di Betel» (13,29-32). La morte del profeta e le circostanze fanno comprendere al vecchio profeta la verità della parola portata dal profeta disobbediente. Il profeta muore, il suo messaggio, se è vero, no.

Un racconto splendido. La Bibbia continua a farci doni imprevisti. Quale il senso di questa parabola? Non lo sappiamo con certezza. Probabilmente, come suggerì già Karl Barth, la collocazione del racconto all’inizio dello scisma di Israele svela un messaggio legato a questo grande trauma. Non è da escludere che il profeta del Nord simboleggi Israele quello di Giuda il regno del Sud, e il leone sia immagine di Nabucodonosor che "uccise" la tribù di Giuda senza divorarla (ma deportandola), ed essa mentre "muore" rivela la verità della sua missione e del messaggio.
Ma questo racconto può contenere anche una grammatica delle vocazioni profetiche, e quindi di ogni vocazione. Il tema più appassionante riguarda infatti l’obbedienza a una chiamata, la fedeltà a un compito. In tutta la parabola profetica, all’autore non interessano le motivazioni dei personaggi. Contano le azioni. Non sappiamo perché il re invitò il profeta a casa, perché il vecchio profeta mentì, né perché il profeta di Giuda credette alla bugia. Ed è proprio in questa laicità dei fatti dove si nasconde il gioiello del racconto.

Nelle vocazioni contano i comportamenti. Le vocazioni sono essenzialmente ed esclusivamente un comando di una voce e un’altra voce che risponde "eccomi" (avevo aggiunto "liberamente", poi l’ho cancellato: la libertà è troppo poco per capire una vocazione, perché è destino). Quando ho incontrato una voce che mi ha dato un "comando", ciò che veramente conta è obbedire a quel comando. Si deve fare soltanto quello, il resto – che pure c’è – non conta. E se non lo faccio, perché credo a un angelo o perché un vecchio profeta mi inganna e mi seduce, la vocazione va a male. Questo racconto dei due profeti dice ancora un’altra cosa: la vocazione va a male anche se è vera. La disobbedienza è il fallimento dei profeti veri – i falsi profeti non possono disobbedire, perché non hanno ricevuto nessun compito. Solo i profeti veri smarriscono la via – questa parabola è costellata da parole legate alla strada: andare, tornare, ritornare, via.

Noi facciamo di tutto per trasformare le vocazioni in faccende morali, e la Bibbia ci continua a ripetere che sono altro. Sono partire da Giuda con un messaggio ricevuto come comando, partire perché quando una voce chiama si può solo partire; annunciare il messaggio, non accettare le offerte dei potenti, neanche "metà del loro regno", poi fare molta attenzione alla strada, perché non tutte le strade sono buone. E mentre si torna a casa non ascoltare né i profeti né gli angeli di Dio se ci dicono di fare qualcosa di diverso dal compito che abbiamo ricevuto. E questa è la tentazione più difficile, molto più difficili delle offerte dei re e dei potenti, perché i profeti tentatori parlano la stessa lingua di quelli onesti. Quel vecchio profeta non era necessariamente un falso profeta. Poteva semplicemente essere solo un profeta bugiardo (anche i profeti veri fanno peccati e dicono bugie). Alla Bibbia non interessa parlarci delle virtù del vecchio profeta, ma narrarci la storia del fallimento di una vocazione profetica vera – ma non del suo messaggio.


La morte del profeta è iscritta nella sua disobbedienza. Quell'uomo di Dio venuto da Giuda, per la Bibbia era già profeticamente morto quando il leone lo trovò lungo la strada sbagliata: quel leone uccise un profeta morto – e quindi non c’era nulla da divorare, perché le vocazioni non sono carne commestibile. L’obbedienza è la prima virtù dei profeti, forse l’unica davvero necessaria. Un profeta può essere cattivo, bugiardo, vizioso, ma muore se smette di obbedire al suo destino e al suo compito. Ho conosciuto profeti che alla fine della vita hanno portato con sé soltanto l’obbedienza: si era spento tutto, persino l’agape, e sono arrivati in cielo portando l’obbedienza alla prima voce come loro unica, meravigliosa, dote.
I libri dei Re non danno un nome a quei due profeti. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe dona invece un nome di quel profeta fallito venuto dal Sud per rispondere a una voce: Jadon. Chiamiamolo per nome un’ultima volta, perché anche un profeta fallito può custodire una benedizione.

l.bruni@lumsa.it