Opinioni

Più grandi della colpa / 26. Salviamo ogni figlio sospeso

Luigino Bruni sabato 14 luglio 2018

Sarà Platone ad abolire i lamenti degli uomini celebri e a farne materia da donne e da uomini vili, affinché coloro che diciamo di educare per la difesa del paese disdegnino di comportarsi in modo simile a loro

Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi

Noi, uomini e donne, amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo i nostri figli. Per questo la riconciliazione vera tra un genitore e un figlio è tra le gioie più sublimi della terra, forse la più grande. La parabola del "figliol prodigo" è tra le parabole più belle e note dei Vangeli, anche perché ci parla di un figlio che ritorna a casa e di una riconciliazione. Ma quando usciamo dalla parabola di Luca e scriviamo le parabole di carne della nostra vita, ci accorgiamo che i figli ritornati quasi sempre ripartono. Ritornano nei porcili, dilapidano ancora la loro parte di eredità, e qualche volta ritornano per prendersi anche il resto che non "spetta" loro. La gioia delle famiglie e delle comunità spesso va trovata e gustata in quel lasso di tempo che passa tra un ritorno e una ripartenza, nello spazio che si trova tra il "bacio del padre" e il "bacio di Giuda".

Assalonne è tornato a Gerusalemme, ma Davide, suo padre, non lo vuole incontrare: «Si ritiri in casa e non veda la mia faccia» (2 Samuele 14,24). Dopo due anni, con la mediazione di Ioab, riesce a incontrare suo padre: «Il re fece chiamare Assalonne... E il re baciò Assalonne» (14,33). Il bacio, cioè la piena riabilitazione. Ma appena riabilitato, Assalonne inizia a preparare il suo piano per soppiantare suo padre (15,1). Assalonne ci era stato presentato con il tipico aspetto dell’eroe guerriero: «In tutto Israele non vi era uomo bello quanto Assalonne. Quando si faceva tagliare i capelli - e se li faceva tagliare ogni anno, perché la capigliatura gli pesava troppo e perciò li tagliava -, egli pesava i suoi capelli e il peso era di duecento sicli» (14,25-26). Era anche nipote di un re (3,3). Un ritratto che ricorda da vicino Saul, un’ombra reale che continua a seguire e perseguitare lo sviluppo della vita Davide. Con la scusa di voler sciogliere un voto che aveva fatto a YHWH nel tempo del suo esilio - è antico il vizio di avvolgere le motivazioni politiche e cospirative con un involucro religioso -, Assalonne ottiene dal padre il permesso di recarsi a Ebron, dove però si auto-proclama re. Attorno al pretendente al trono inizia a crescere il consenso popolare. La congiura diventa «potente» (15,12), finché un giorno un messaggero annuncia a Davide: «Il cuore degli Israeliti è con Assalonne» (15,13). Allora Davide disse a tutti i suoi uomini: «Alzatevi, fuggiamo; altrimenti nessuno di noi scamperà dalle mani di Assalonne» (15,14).

Mentre Davide si appresta a fuggire, molto bello è il dialogo tra Davide e un filisteo, Ittai, uno straniero, capo di un popolo sconfitto, venuto con seicento uomini per stare al fianco del re. Davide lo invita, lealmente, a restare in città con Assalonne (15,19). Ittai non accetta, resta accanto al re, e dice parole che richiamano, quasi alla lettera, il dialogo tra Rut e sua suocera Naomi, uno dei più belli di tutta la Bibbia: «Per la vita del Signore e la tua, o re, mio signore, in qualunque luogo sarà il re, mio signore, per morire o per vivere, là sarà anche il tuo servo» (15,21). Qui Davide non ha per Ittai nessuna parola di ringraziamento; ma più tardi, quando inizierà la guerra, lo nominerà capitano di un terzo del suo esercito (18,2). Nelle reciprocità decisive della vita, le parole, già grandissime, sono troppo piccole, e restano strozzate in gola. In questi incontri bellissimi e tremendi, si parla senza parlare.

Davide lascia la città con la sua gente e la sua famiglia: «Tutta la terra piangeva con alte grida. Tutto il popolo passava, anche il re attendeva di passare il torrente Cedron, e tutto il popolo passava davanti a lui prendendo la via del deserto» (15,23). Tutta la terra piangeva. Un esodo all’incontrario, un nuovo fiume da guadare per un nuovo combattimento, un altro calice da bere che non si vorrebbe bere. Un altro pianto per Gerusalemme e per i suoi figli: «Davide saliva l’erta del Monte degli Ulivi, saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi» (15,30). Davide vive quella fuga come un pellegrinaggio di un penitente, come un lutto, come una espiazione di colpe commesse, che YHWH e lui conoscono bene. E piange. Anche il re piange, e la Bibbia non ha paura di dircelo.

Lungo la strada lo raggiunge un amico, di nome Cusai. Davide lo invita a restare in città e conquistarsi la fiducia di Assalonne come suo consigliere militare - Cusai riuscirà nel suo rischioso e difficile compito di agente segreto nel campo nemico (17,14), perché Assalonne preferirà il consiglio di Cusai a quello del più autorevole Achitòfel, il nonno di Betsabea, che in seguito alla bocciatura del suo piano si impiccherà (17,23).

Durante la sua fuga verso il Giordano, Davide fa un altro incontro significativo con un beniaminita, un discendente della casa di Saul: Simei. L’uomo «usciva imprecando e gettava sassi contro Davide… Così diceva Simei, maledicendo Davide: "Vattene, vattene, sanguinario, mascalzone! YHWH ha fatto ricadere sul tuo capo tutto il sangue della casa di Saul, al posto del quale regni; YHWH ha messo il regno nelle mani di Assalonne, tuo figlio, ed eccoti nella tua rovina, perché sei un sanguinario"» (16,5-8). Il fantasma di Saul prende la parola e opera, a dirci che il partito sconfitto di Saul nel corso della prima guerra civile vinta da Davide era ancora vivo - non basta eliminare i nemici per cancellare tutte le loro parole, sarebbe troppo facile e troppo ingiusto. Simei legge la ribellione di Assalonne con il registro della teologia retributiva: Davide sta subendo per mano di suo figlio le stesse pene che aveva procurato a suo "padre" Saul. Anche Davide è dentro la medesima lettura, e così non respinge quella maledizione. Lascia Simei scagliargli addosso le sue pietre e le sue parole più dure delle pietre, e vive questo incontro come espiazione e come riparazione - non capiamo il capitalismo se dimentichiamo questa lettura economica della fede che attraversa anche la Bibbia. Davide non si dichiara innocente (non era solo Simei a pensarlo un usurpatore), e vive quella maledizione come un prezzo da pagare per sperare in una nuova benedizione: «Questo beniaminita, lasciatelo maledire, poiché glielo ha ordinato il Signore» (16,11).

È bella questa mitezza di Davide che, docile, piega il capo sotto la sassaiola di Simei. L’attribuisce addirittura a un possibile "ordine di YHWH", e quindi si fa toccare e ferire dal saulita: «Simei camminava sul fianco del monte, parallelamente a Davide, e camminando lo malediceva, gli tirava sassi e gli lanciava polvere» (16,13).

Di fronte alle maledizioni che, puntualmente, incontriamo nel cammino e nei deserti, possiamo provare a respingerle e a eliminarle (come volevano fare i militari di Davide: 16,11), tapparci le orecchie e il cuore per non sentirle. Oppure le possiamo accogliere miti, facci toccare la carne, farci da loro in-segnare il mestiere del vivere, imparando l’umiltà-humilitas dall’humus che ci viene tirato addosso: «Il re e tutta la gente che era con lui arrivarono stanchi presso il Giordano, dove ripresero fiato» (16,14).

Assolonne prepara la guerra e segue il consiglio dello scaltro Cusai, il quale manda messaggeri da Davide per informarlo della strategia che seguirà Assalonne, e quindi comportarsi di conseguenza (17,16). La battaglia ebbe luogo nella foresta di Èfraim, l’esercito di Assalonne è sconfitto: «La strage fu grande in quel giorno: ventimila uomini… La foresta divorò in quel giorno molta più gente di quanta non ne avesse divorata la spada» (18,7-8). La foresta divorò anche il figlio del re: «Assalonne cavalcava il mulo; il mulo entrò sotto il groviglio di una grande quercia e la testa di Assalonne rimase impigliata nella quercia e così egli restò sospeso fra cielo e terra, mentre il mulo che era sotto di lui passò oltre» (18,9).

Un altro figlio sospeso tra cielo e terra, tradito dalla sua meravigliosa capigliatura, che tanti aveva affascinato e sedotto - non è raro che sia il nostro talento a frenarci la corsa nelle battaglie decisive. È molto tragica questa immagine di Assalonne appeso alla quercia, infinitamente vulnerabile, inerme e sconfitto. L’autore biblico ci dice in quale campo sta in questa battaglia. In quello di Davide, perché è lì che colloca il cuore di YHWH. Assalonne è un ribelle, che voleva far deragliare dal suo corso la storia della salvezza. E così, ex-post, ci narra, con insufficiente pietas, la triste fine di questo figlio appeso: «Ioab Prese in mano tre lance e le conficcò nel corpo di Assalonne, che era ancora vivo nel folto della quercia» (18,14). Un altro figlio, innalzato da terra, trafitto nel costato. Eppure Davide aveva detto a Ioab e ai suoi generali: «Trattatemi con riguardo il giovane Assalonne!» (18,5). Ma Ioab non trattò con "riguardo" il giovane, e come aveva eseguito l’ordine di Davide di uccidere Uria l’ittita per mano degli Ammoniti (cap. 11), ora uccide con le sue proprie mani quel figlio - il mestiere delle armi non conosce "riguardo" per i giovani.

Ma noi non siamo costretti a restare sul campo del vincitore. Possiamo, dobbiamo decidere se continuare la lettura del capitolo "passando oltre" e così lasciare quel giovane appeso alla quercia, oppure metterci a cercare il mulo che era "passato oltre", caricarvi il corpo ferito di Assalonne e accompagnarlo al primo albergo. Quando ci imbattiamo in un crocifisso, non possiamo farlo risorgere, ma possiamo decidere di restare sotto la sua croce.

Dopo l’Appeso al legno, non siamo più innocenti se "passiamo oltre" un figlio sospeso tra cielo e terra e trafitto nel costato, senza domandarci se sia colpevole o innocente. Tutta la Bibbia è parabola, tutta è esercizio morale che ci viene proposto per diventare più umani. Se ora, leggendo, non ci fermiamo davanti a questo figlio appeso che il padre aveva chiesto invano di trattare con riguardo, domani non ci fermeremo di fronte ai sospesi tra cielo e terra che popolano le nostre strade, i nostri mari, le nostre foreste, che il Padre ci continua, invano, a chiedere di trattare con riguardo. Se non proviamo a compiere questo esercizio doloroso e difficile, la Bibbia diventa soltanto un testo per il culto sacro, e appassisce. È invece imparando a fermarci e a prenderci cura delle vittime che incontriamo nell’esercizio della lettura, che possiamo sperare di non trasformarci, un po’ alla volta e senza accorgercene, in un altro Iaob che troverà nuove buone ragioni politiche per infilzare con tre lance un altro figlio sospeso.
l.bruni@lumsa.it