Opinioni

Le nude domande/5. Indicare un cielo senza idoli

Luigino Bruni sabato 5 dicembre 2015
La passione di dire il Paradiso a chi non sa più vederloDopo averci detto la vanità della ricerca intellettuale e di quella dei piaceri del corpo, ora Qohelet mette alla prova l’idea, molto radicata, che vedeva e cercava una non-vanità nel "ricordo" dei posteri. In un umanesimo senza paradiso, dove l’esistenza umana e la fede si svolgevano tutte "sotto il sole" (è la terra il luogo dove si incontra YHWH, il «Dio dei vivi»), l’essere ricordato dopo la morte era uno scopo considerato non-vano, una buona e saggia ragione per vivere. E invece: «Né di un sapiente né di un idiota avrà memoria il suo tempo. Pochi giorni, e di loro tutto è dimenticanza. Il sapiente e l’idiota ne fa un fascio la morte» (2,16). Tutti i giorni vediamo non-sapienti ricordati attraverso le generazioni e moltitudini di saggi umili la cui memoria è custodita soltanto all’interno della propria famiglia, un ricordo che il nostro tempo senza solidarietà tra generazioni sta accorciando rapidamente. Chi ricorda più la giustizia e la sapienza di milioni di donne dei secoli scorsi, le loro vite sagge e buone spese nel nascondimento a servizio totale di mariti e figli? La memoria libera dei popoli è troppo piccola per contenere tutta la verità e tutta sapienza del mondo. Quindi l’essere ricordati non può essere un profitto adeguato per la fatica spesa per diventare saggi. Nei ricordi eterni delle genti ci sono anche Caino, Erode, Pilato. E i saggi e i buoni sono dimenticati al pari degli stolti e degli empi. Vano, poi, è anche pensare che la ricchezza accumulata dal saggio diventerà benedizione per i suoi figli: «In me il cuore si torce disperato per tutta la fatica che ho fatto sotto il sole. Perché chi ha faticato con sapienza, con scienza e con successo deve lasciare il suo in eredità a uno che non ha faticato. Anche questo è fumo e grande sciagura» (2,20-21). Non abbiamo nessuna garanzia che le nostre fatiche vadano nelle mani di meritevoli. Vivere con questa speranza è solo vanità. La tesi tremenda e rivoluzionaria di Qohelet (che ritroviamo solo in Giobbe) è accomunare il giusto e il malvagio nella stessa sorte. Israele aveva costruito una sua teologia consolatoria sostenendo che i beni che il giusto lascia ai figli diventano benedizione. Vivere bene e diventare ricchi è caparra di benedizione anche per i figli. L’alleanza si tramandava da padre in figlio, ed era accompagnata e confermata dai beni lasciati in eredità. Qohelet, alla fine della sua ricerca di uomo saggio e ricco, ci dice che anche questa teologia è illusione e vanità. Ci sono uomini giusti che hanno lasciato grandi eredità a figli stolti che hanno scialacquato tutto, o per i quali la ricchezza dei genitori è stata solo maledizione. Non sono pochi gli imprenditori saggi che terminano la loro vita sapendo di lasciare il frutto delle loro fatiche a eredi immeritevoli. Qohelet ci dice che questa ingiustizia è una forma di grande sofferenza. Le ricchezze non sono una risposta non vana alla "vanitas" della vita nostra e dei nostri figli. Qohelet giudica le nostre illusioni ponendosi al termine della vita. Anzi, ci dice qualcosa di più: la sola prospettiva sapiente e vera sulla esistenza è quella di chi la guarda e giudica ponendosi alla fine della corsa: «E al mio cuore io dico: tale la sorte di un idiota tale la mia». E quindi si chiede: «E perché farmi cumulo di sapienza per niente? E il mio cuore risponde: fumo anche questo» (2,15). La morte annulla ogni ricompensa di una vita spesa nella sapienza. È questa la tesi più radicale di Qohelet, alla base del suo giudizio universale di "vanitas", fumo, vento. Un giudizio che intimorisce, che ha impedito a tanti di incontrare la sapienza di Qohelet. Eppure il suo è un messaggio di vita, che richiede però la capacità di saper guardare la morte negli occhi. Senza accontentarci delle consolazioni facili e quindi vane. Ci invita a guardare la vita nostra e quella degli altri osservandola dal capezzale dei moribondi. E ci dice: la prima e radicale "vanitas" degli esseri viventi è che muoiono tutti. Quindi la prima e radicale sapienza è guardare il mondo e la nostra vita come esseri mortali. Qohelet non parla della morte e della vita da depresso. Lui è lì, nel cuore della Bibbia (non finiremo mai di ringraziare gli antichi saggi che hanno voluto includerlo nel canone), a dirci che non c’è sguardo vero e saggio sulla vita che non includa anche l’ultimo sguardo. Se riusciamo a trovare qualcosa di non-vano e non-illuso quando assistiamo un amico o un figlio negli ultimi suoi giorni di vita, allora possiamo avere una speranza non-vana che la vita intera non sia solo fumo. Qohelet ci dice che nessuna ricerca di non-vanità sotto il sole può evitare questa ultima prospettiva, intrattenuti nei balocchi dell’infanzia religiosa e umana. L’esercizio etico estremo di Qohelet è particolarmente prezioso perché è universale. Lui non crede nel paradiso. Sa che Elohim esiste, ma non pensa che incontrarlo dopo la morte sia una consolazione non-vana. Il cristianesimo ci ha donato altre prospettive sulla morte e sul paradiso. Il nostro tempo, però, è popolato di moltissimi uomini e donne che, come Qohelet, non hanno l’orizzonte del cielo, e se ce l’hanno è troppo vago e distante. Seguire, allora, questo antico sapiente, che è parte dello stesso umanesimo biblico ebraico e cristiano, può essere un sentiero arduo che conduce a crinali dai paesaggi meravigliosi, perché può donarci un nuovo linguaggio per reimparare a parlare del cielo a chi non lo vede più oltre la morte; ma può aiutare molto anche chi al paradiso ci crede, ma è concentrato troppo sulle parole ultime di Dio e rischia di dimenticare quelle penultime degli uomini onesti che cercano il volto di Elohim "sotto il sole". Dobbiamo reimparare e raccontare il paradiso a gente che non riesce più a vederlo anche perché le nostre ideologie religiose consolatorie glielo hanno velato. Qohelet non popola il nostro paradiso. Ma lo svuota di idoli, e la sua compagnia e più utile di quella dei costruttori dei tanti paradisi consolatori. In un paesaggio liberato da feticci e totem, un giorno, forse, sulla linea dell’orizzonte potremo vedere arrivare qualcuno che non sia solo fumo. Nella Bibbia c’è tanta ricchezza per gli uomini e le donne di oggi, dobbiamo reimparare a vederla e raccontarla. Ma la Bibbia è autentico umanesimo solo se è presa sul serio nella sua interezza, senza evitare gli snodi e gli accordi dolorosi. La resurrezione fu evento sconvolgente e capace di fondare un mondo nuovo, anche perché il sepolcro vuoto sfolgorò sullo sfondo delle lamentazioni, del giusto sofferente, di Giobbe. Di Qohelet. Uno sfondo scuro che consentì di far vedere una luce vera e diversa. Ieri, e oggi. Una infinita domanda di senso e di non-vanità si eleva dagli uomini e dalle donne di oggi. È forte il nostro grido. Siamo sempre più insoddisfatti dalle risposte che la scienza e la sapienza delusa del nostro tempo ci offrono. Non abbiamo ancora reimparato a morire sotto un cielo che è diventato vuoto. E quindi sta divenendo troppo doloroso invecchiare. Le generazioni che ci hanno preceduto avevano elaborato una cultura dell’invecchiamento e della morte. Ho visto morire i miei nonni, e mi hanno aiutato a vivere. Ci illudiamo di vincere la morte dimenticandola, espellendola dalle nostre città, non portando i bambini ai funerali. Ma se non ritroveremo, presto, un rapporto buono con la fine della vita, se non reimpareremo a dire "sorella morte", la depressione diventerà la nuova peste del futuro (e forse lo è già del presente). Scopriremo mille vaccini e cure per nuovi virus e batteri, ma potranno poco contro la morte se non reimpariamo a vivere. C’è molta paura negata della morte dietro il nostro modello edonistico di consumo: ci riempiamo di merci e ci stordiamo di piaceri per esorcizzare la morte. Lo abbiamo sempre fatto, ma in una cultura che non sta facendo nulla per cercare di chiamare di nuovo la morte per nome, la produzione di idoli diventa la sola "risposta" di massa alla morte. L’idolatria – non l’ateismo – è sempre stata la grande illusione per vincere la morte. Ma finché le fedi erano vive, le culture sapevano riconoscere e combattere gli idoli. In un mondo spopolato di dei restano solo i feticci, e muoiono in noi i loro anticorpi. Qohelet non ci sta offrendo una risposta non-vana al senso del morire. Si ferma alle domande, non trova le risposte, si ribella alla vita: «Tutto è fumo ["hevel", Abele], vento che ha fame. Mi fa orrore il mio sforzo, la pena che ho patito sotto il sole» (2,17). Ma Qohelet non è solo in questo assurdo: con lui ci sono Giobbe, Geremia, molti salmisti. L’Abbandonato. E i tanti, troppi, uomini che continuano ad arrivare al termine della loro vita con la sensazione di avere solo accumulato vento.