Opinioni

La sentenza. Karadzic: 40 anni per un genocidio, giustizia fragile

Fabio Carminati giovedì 24 marzo 2016
Il processo che si chiude, dopo lunghi anni di interrogatori e dolori rivangati come l’eccidio di Srebrenica, per i Balcani ha probabilmente la valenza di quanto è stato per il regime nazista il giudizio di Norimberga. Radovan Karadzic, e tutto ciò che ha rappresentato, è uno spartiacque per la giustizia internazionale. In un processo che rappresenta anche l’ultimo retaggio di una Corte speciale (quella della ex Jugoslavia), che per anni e in attesa della nascita della Corte penale internazionale, ha rappresentato l’unico barlume di giustizia in una realtà capovolta come quella dei Balcani e delle guerre seguite alla disgregazione della Jugoslavia di concezione titina. La sentenza Karadzic sarà studiata per anni, le implicazioni e la pena “ridotta” - nonostante il riconoscimento del “genocidio di Sreebrenica” - potrebbero riaprire vecchie ferite, ma forse anche spingere la Serbia (che pulizie deve ancora compierne, come le ha chiesto l’Unione Europea) in una posizione più vicina all’Europa. Srebrenica è stata e passerà alla storia come una strage genocidiaria: studiata a tavolino e messa in atto con precisione scientifica, senza risparmiare alcuno. Per uccidere anche ciò che sarebbe potuto restare a tenere memoria, come i bimbi. Concepita per uccidere il ricordo e la giustizia. Un ricordo e una giustizia che ora i giudici riconoscono ai musulmani di Bosnia con la sentenza. Fu proprio lì, in Bosnia, che raggiunse anche il massimo abominio un altro concetto che con il passare degli anni è diventato la costante delle guerre che coinvolgono i civili: il concetto di stupro etnico. Un reale crimine di guerra, come ieri ha sancito, in un altro giudizio “storico”, anche la Corte penale internazionale per un altro massacratore, il congolese Jean-Pierre Bembra, condannato all’Aja per gli stupri commessi dai suoi miliziani nella vicina Repubblica Centrafricana. Un solo grandissimo rammarico: la condanna finale a 40 anni. Per un uomo di settant’anni sono l’equivalente di un ergastolo. Ma non lo sono in termini di valutazione della pena e di giustizia (sempre simboleggiata con una bilancia) per ottomila morti musulmani di Srebrenica, migliaia di altri nei campi o nei bombardamenti di Sarajevo. La giurisprudenza, proprio per questo, continuerà a restare fragile. Perché 40 anni non sono formalmente il “fine pena mai”. E forse su questo i conti con la giustizia non tornano. Come per alcuni gerarchi nazisti a Norimberga: la storia ci ha insegnato che potevano “servire” ai vincitori.